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Industria 4.0, prima di tutto vengono le competenze

L’unica via di uscita per far tornare l’Italia competitiva e riportare la nostra manifattura al passo con l’Europa è recuperare il divario che accusiamo nel campo delle skill tecnologiche

Pubblicato il 27 Gen 2017

Antonio Coccollone, Litterio Mirenda e Andrea Trapani*

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Competenze tecnologiche e quarta rivoluzione industriale

L’intensa integrazione dell’hi-tech nelle fabbriche sta decretando l’evoluzione verso nuovi format produttivi che gli studiosi racchiudono all’interno della definizione di “industria 4.0”. Tutti i principali paesi avanzati, Italia compresa, hanno formulato piani di politica industriale per governare e sfruttare tale processo, le cui direttrici fondamentali di intervento riguardano lo stimolo alla spesa privata in ricerca e innovazione e il rafforzamento delle competenze.
Ci concentriamo qui sulle competenze e sul ruolo fondamentale che queste assumono nel processo di digitalizzazione e informatizzazione dei sistemi produttivi. Una ricerca svolta da McKinsey individua, infatti, nella carenza di abilità tecnologiche una possibile barriera a intraprendere il processo. E infatti il Piano italiano per l’industria 4.0 punta a rafforzare le competenze tramite specifici interventi nel mondo dell’università, da una parte, e la creazione di una rete di infrastrutture in grado di collegare il mondo produttivo con quello della ricerca (Competence Center), dall’altra.
La valutazione dell’intervento pubblico non può prescindere da una ricognizione sullo stato dell’arte delle abilità tecnologiche impiegate nella manifattura italiana, rapportate a quelle di altri paesi. Una possibile misura delle competenze potenzialmente spendibili all’interno del processo industria 4.0 è ricavabile dai dati Eurostat relativi alle quote di addetti Hrst (Human Resources in Science and Technology), cioè di addetti manifatturieri che svolgono mansioni per le quali sono richiesti un elevato titolo di studio e il possesso di competenze scientifico-tecnologiche. La misura può essere intesa come un possibile indicatore di preparazione dei singoli paesi rispetto ai cardini dell’Industria 4.0.

La posizione dell’Italia

I dati Eurostat indicano che per i paesi europei (inclusi i membri dell’Aels – Associazione europea di libero scambio) i lavoratori Hrst rappresentano un terzo degli addetti manifatturieri. È una quota in costante aumento: tra il 2008 e il 2015 sono cresciuti dell’8,5 per cento e nella manifattura nel suo complesso del 2 per cento. È in atto da tempo, quindi, un processo di sostituzione tra manodopera meno qualificata e lavoratori Hrst.
L’Italia in questa graduatoria si colloca nelle ultime posizioni, con una quota simile a quella della Polonia (29 per cento) e un incremento degli Hrst inferiore alla media.

Il grafico 1 posiziona i paesi europei all’interno di quattro quadranti definiti in base alla dimensione media della manifattura e al peso medio degli addetti Hrst; i paesi sono inoltre classificati sulla base del quartile di Pil pro-capite di appartenenza.
Il grafico evidenzia una correlazione inversa tra il peso della manifattura e il livello del Pil. Quest’ultimo a sua volta è correlato positivamente con la quota di addetti Hrst della stessa manifattura. Nel quadrante in alto a sinistra si trovano i paesi del Nord e Centro Europa, caratterizzati da un basso peso della manifattura e da elevate competenze scientifico-tecnologiche; nel quadrante in basso a destra sono presenti paesi, prevalentemente dell’Est Europa, più manifatturieri e con forza lavoro meno qualificata. Se alti livelli di reddito sono in generale associati a un basso peso della manifattura e ad alte quote di addetti Hrst, Germania e Austria appaiono come un’eccezione, essendo gli unici due paesi in grado di coniugare elevata intensità manifatturiera, elevate competenze tecnologiche e un alto livello del Pil.
Storia a sé, ma di natura diversa, fa anche l’Italia, paese altamente manifatturiero e con una bassa quota di lavoratori Hrst, ma che si caratterizza per un livello di reddito significativamente più alto. Il collocamento del paese è il risultato di tre decenni di galleggiamento della base produttiva, nella convinzione che il “made in Italy” a basso contenuto tecnologico potesse essere sufficiente a generare valore aggiunto e garantire benessere. L’inerzia ha differenziato l’Italia tanto da paesi come Regno Unito e Francia, che hanno visto alleggerire il proprio settore manifatturiero puntando solo su quello hi-tech e sui servizi, quanto dalla Germania, che ha mantenuto e rafforzato la propria caratterizzazione manifatturiera ad alto contenuto tecnologico.
L’esperienza degli altri paesi suggerisce che il livello di benessere italiano, già in relativo declino se confrontato con il resto d’Europa, non è più compatibile con le competenze attualmente impiegate nell’industria nazionale, che sta perdendo competitività, rischiando di trascinare il paese su un sentiero di bassi redditi e salari. A prescindere dal peso che la manifattura avrà in futuro in Italia, il cambio di rotta richiede una presa di coscienza sul fatto che il mero aumento della spesa in ricerca e sviluppo non basta, se non viene prepotentemente affiancato da politiche che favoriscano l’innalzamento delle competenze.

* questo articolo è pubblicato su lavoce.info

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