I DATI ISTAT

In Italia deficit di competenze digitali al 26%

Il 45% delle imprese Ict a caccia di figure tecnico-operative, a seguire l’industria (43%) e la finanza (38%). Il 35,5% delle aziende le ritiene fondamentali per affrontare le sfide nei prossimi anni

Pubblicato il 30 Dic 2022

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Nonostante la pandemia abbia accelerato la transizione digitale, le imprese scontano un deficit in tema di competenze informatiche professionali (26,1%), il cui aggiornamento è però cruciale per superare la crisi post pandemica e tornare a crescere. La fotografia è scattata dal report sulla formazione nelle imprese nel 2020, realizzato da Istat.

Il quadro complessivo

Il quadro complessivo rivela che nel 2020 il 68,9% delle imprese attive in Italia con almeno 10 addetti ha svolto attività di formazione professionale, tra le grandi imprese (250 addetti e più) la quota supera il 90%. Importante l’impegno in attività formative diverse dai corsi (+10,3% rispetto al 2015) come il training on the job, la partecipazione a convegni e seminari e soprattutto l’autoapprendimento mediante formazione a distanza. Oltre quattro milioni di lavoratori hanno partecipato a corsi di formazione (il 44,6% del totale degli addetti, con lievi differenze tra uomini e donne).

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Nel triennio 2018-2020 (che comprende l’anno della pandemia), quasi tutte le imprese italiane hanno dichiarato di aver effettuato cambiamenti significativi che, per sette imprese su 10 (e per quasi il 90% di quelle di grandi dimensioni), hanno interessato i processi e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

In particolare, il 43,4% delle imprese riferisce infatti di averlo fatto come risposta alla crisi pandemica.

Le trasformazioni in corso negli ultimi anni hanno avuto impatto anche sul contesto gestionale delle imprese, modificandone i metodi di lavoro e le prassi organizzative (es. team autonomi, telelavoro, organizzazioni orizzontali), interessando due terzi delle imprese, soprattutto per l’emergenza sanitaria (il 60,3% delle imprese la segnala infatti come causa del cambiamento). Inoltre, quasi i due terzi delle imprese ha ridefinito i propri processi produttivi, riconvertendo la produzione o sviluppando nuovi prodotti o servizi e il 48,8% ha modificato o ampliato i propri canali di vendita o metodi di
fornitura/consegna dei prodotti o servizi (es. passaggio ai servizi online, ecommerce e modelli distributivi multicanale).

L’evoluzione tecnologica e organizzativa

In questo quadro di forte evoluzione tecnologica e organizzativa la formazione ha giocato un ruolo fondamentale. Infatti, ha svolto attività formative nel 2020 oltre il 70% delle imprese che hanno innovato i processi e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (74,3%) e di quelle che hanno cambiato metodi di lavoro e prassi organizzative (73,4%).

Per supportare le nuove attività sono stati introdotti strumenti per la formazione a distanza degli addetti circa nella metà delle imprese (due terzi delle quali a causa della crisi pandemica) con valori superiori alla media nazionale in alcune regioni del Sud (Abruzzo 67,0%, Puglia 56,1%) e delle Isole (Sardegna 59,7%).

Alcune differenze si osservano in termini di settore di attività. Se i settori delle Ict e dei servizi professionali emergono tra quelli che hanno introdotto i cambiamenti più rilevanti, le imprese attive in alloggio e ristorazione risaltano per aver utilizzato la formazione a supporto delle innovazioni, in percentuale maggiore (85,2%) rispetto ad altri settori

L’analisi settoriale

Dal punto di vista settoriale, presentano un’incidenza superiore all’80% le imprese attive nei settori servizi di fornitura di elettricità, gas, acqua e gestione rifiuti, (84,4%) di apparecchi meccanici, elettrici, elettronici (83,7%). Sotto la media nazionale si pongono i settori dell’industria della carta, cartone e stampa (54,1%), i servizi di alloggio e ristorazione (48%) e il settore del tessile e abbigliamento (47,6%). La modalità più diffusa per la formazione nelle imprese è ancora quella “tradizionale”, ossia quella di tipo frontale (59,5% delle imprese), ma nel 2020 ha assunto rilevanza l’utilizzo di attività formative diverse dai corsi nella metà delle imprese (con un incremento di 10 punti percentuali rispetto al 2015). Emerge la formazione a distanza, adottata da quasi un terzo delle imprese, ossia di quelle realtà produttive che grazie all’utilizzo del Digitale hanno potuto investire sul proprio capitale umano anche durante la crisi pandemica e con l’interruzione delle attività ordinarie.

Gli ostacoli

Tra gli ostacoli allo svolgimento della formazione, le imprese hanno segnalato i costi elevati (8,6%), la mancanza di tempo (8,0%), la mancanza di risorse finanziarie a disposizione (7,1%) e le difficoltà tecniche nell’organizzazione della formazione (7,2%), queste ultime dovute, per un terzo delle imprese, all’insorgere dell’emergenza sanitaria da Covid-19. Entrando nel merito di alcuni settori, 264 industrie estrattive su 410 hanno investito in formazione; sono 6.078 le imprese – su un totale di 7.810 – dell’industria chimica che hanno investito per formare i dipendenti, mentre questo è accaduto per 2.545 imprese di fornitura di energia elettrica, gas, acqua e di servizi per la gestione dei rifiuti a fronte di 3.016 imprese nel settore. Complessivamente, l’Istat comunica che su 198.683 imprese, sono 136.974 quelle che hanno investito nel 2020 in attività formative.

Il ruolo delle soft skill per superare la crisi pandemica

Un terzo delle imprese dichiara che, nel 2020, una parte dei propri addetti non aveva le competenze adeguate allo svolgimento del proprio lavoro secondo il livello richiesto.

Nelle imprese di grandi dimensioni, il deficit di competenze riguarda due terzi delle unità. Tra le competenze da migliorare, quelle tecnicooperative emergono per la loro rilevanza (32,0%) rispetto al settore in cui le imprese operano. A queste si affiancano le competenze trasversali, come la capacità di contribuire al lavoro di gruppo (31,2%) e l’attitudine mirata alla soluzione dei problemi (29,8%), il cui ruolo è divenuto cruciale nella situazione emergenziale del 2020.

Oltre alle competenze manageriali e gestionali (23,3%) le soft skills assumono dunque una valenza strategica per affrontare cambiamenti repentini e inaspettati, come quelli che l’emergenza sanitaria da Covid19 ha portato nel contesto produttivo, e non solo.

Nonostante la pandemia abbia accelerato la transizione digitale, le imprese scontano un deficit in tema di competenze informatiche professionali (26,1%) il cui aggiornamento è necessario per tutte. Rispetto al settore di attività, si osservano valori più alti sulle competenze tecnicooperative richieste nelle imprese nei servizi Ict (45,0%), dell’Industria (circa 43%) e nella Finanza (38,0%), e di quelle sul lavoro di squadra per il raggiungimento di un obiettivo comune in settori molto diversi tra loro come quello di trasporti e magazzinaggio (36,9%) e dei servizi finanziari (35,8%)

Più di un terzo delle imprese (35,5%) indica inoltre le competenze tecnicooperative, ossia specifiche del lavoro, tra le competenze professionali importanti per lo sviluppo dell’impresa nei prossimi anni (dato in calo ma in continuità con il 2015). Di contro, rispetto alla passata edizione dell’indagine, cresce l’importanza attribuita per il futuro alle competenze informatiche professionali (che passano da 19,4% a 24,1%).

Dopo le competenze tecnicooperative seguono in ordine di rilevanza la capacità nella gestione della clientela (32,0%), le competenze relative al teamworking (28,5%) e al problem solving (25,2%), l’abilità nell’autogestire la propria attività lavorativa (18,9%) e la capacità di produrre idee originali (6,9%) rilevate per la prima volta nell’edizione 2020. Le competenze manageriali e gestionali, che sono indicate come importanti per il futuro dell’impresa dal 22,8% in media, lo sono per più del 50% delle grandi imprese con almeno 500 addetti.

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