L'AUDIZIONE

Smart working e contact tracing, ecco gli avvertimenti del Garante Privacy

Antonello Soro: “Riconoscere il diritto alla disconnessione nelle attività svolte in lavoro agile”. E sul tracciamento dei contagi: “Nessun obbligo per i dipendenti”

Pubblicato il 13 Mag 2020

27/11/2008 ANTONELLO SORO

Dallo smart working al contact tracing. È un’audizione a tutto tondo su l’impatto che le nuove tecnologie hanno sul mondo del lavoro – soprattutto in un momento in cui sono utilizzate in maniera più pervasiva per assicurare la continuità operativa delle imprese e per tracciare gli eventuali contagi da Coronavirus – quella che il Garante Privacy ha fatto in commissione Lavoro del Senato.

Secondo Antonello Soro, “per garantire che le nuove tecnologie rappresentino un fattore di progresso (e non di regressione) sociale, valorizzando anziché comprimendo le libertà affermate sul terreno lavoristico, è indispensabile garantirne la sostenibilità sotto il profilo democratico e la conformità ad alcuni irrinunciabili principi”.

“Il minimo comun denominatore di queste garanzie – ha spiegato il Garante – va individuato nel diritto alla protezione dei dati: presupposto necessario di quella libera autodeterminazione del lavoratore che ha rappresentato una delle più importanti conquiste del diritto del lavoro”. Perché “in un contesto quale quello attuale, caratterizzato tanto dall’emergenza quanto da un ricorso al digitale, l’autodeterminazione del lavoratore rischia di essere la prima libertà violata, persino in maniera preterintenzionale. Il diritto alla protezione dei dati consente di impedirlo”.

Smart working e diritto alla disconessione

Sul fronte smart working, Antonello Soro ha evidenziato la necessità di garantire tutti i diritti riconosciuti al lavoratore.
“Il diffuso ricorso allo smart working, generalmente necessitato e improvvisato – ha spiegato – ha catapultato una quota significativa della popolazione in una dimensione delle cui implicazioni, non sempre, c’è piena consapevolezza e di cui va impedito un uso improprio”.

“Il ricorso alle tecnologie – ha avvertito Soro – non può rappresentare l’occasione per il monitoraggio sistematico del lavoratore. Deve avvenire nel rispetto delle garanzie sancite dallo Statuto a tutela dell’autodeterminazione del lavoratore che presuppone, anzitutto formazione e informazione del lavoratore sul trattamento a cui i suoi dati saranno soggetti”.

Facendo un esempio il Garante ha quindi sottolineato che “non sarebbe legittimo fornire per lo smart working un computer dotato di funzionalità che consentono al datore di lavoro di esercitare un monitoraggio sistematico e pervasivo dell’attività compiuta dal dipendente tramite questo dispositivo”.

Il Garante ha poi segnalato che “va anche assicurata in modo più netto anche il diritto alla disconnessione senza cui si rischia di vanificare la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa, annullando così una delle più antiche conquiste raggiunte dal diritto del lavoro”.

La raccolta dati da parte del datore di lavoro

Nel contesto emergenziale determinato dalla pandemia di Covid 19, sono stati estesi i poteri dei datori di lavoro “per fini anzitutto di prevenzione dei contagi”. Ma, ha spiegato il Garante, “per impedire abusi nell’esercizio di tali poteri, è necessario delimitarne l’ambito, che non può essere interamente rimesso alla contrattazione individuale, proprio per i limiti che caratterizzano la capacità dispositiva del lavoratore nell’ambito di un rapporto asimmetrico quale quello in esame”.

“La disciplina di protezione dati, unitamente alle garanzie giuslavoristiche – puntualizzato – interviene a impedire proprio questi abusi e le conseguenti forme di coartazione della libertà del lavoratore, altrimenti soggetto a facili quanto pericolose ‘servitù volontarie'”.

E ancora, in un contesto emergenziale quale quello che stiamo vivendo, “l’urgenza del provvedere induce spesso una tendenza anomica, che porta ad agire prescindendo da una cornice di regole uniformi”, ha osservato. “E’ quanto si è registrato nelle prime settimane della pandemia, inducendoci a invitare i datori di lavoro ad astenersi dal raccogliere, a priori e in modo sistematico e generalizzato, informazioni sulla sintomatologia del lavoratore o sui suoi contatti”.

“L’aspecificità del rischio sanitario da cui proteggere i lavoratori – ha ricordato Soro – ha reso evidente l’esigenza di coordinare le iniziative datoriali all’interno di un quadro uniforme, articolatosi nei protocolli tra governo e parti sociali, recepiti con dpcm”. Ma anche nell’emergenza in atto, resta necessario “sottolineare la rilevanza della distinzione di compiti – e quindi, di riflesso, di potere informativo – tra datore di lavoro e medico competente, sancita dalla disciplina lavoristica. Il primo adempie i propri obblighi di garanzia dell’incolumità dei lavoratori, senza tuttavia avere cognizione diretta delle loro patologie ma disponendo dei soli elementi fondativi del giudizio di idoneità alla mansione specifica. Solo al secondo, invece, quale professionista sanitario, spetta la valutazione della necessità di sottoporre i lavoratori a particolari analisi diagnostiche, se ritenute utili anche, in particolare, al contenimento dei contagi, come prevede il citato protocollo tra governo e parti sociali”.

“Gli accertamenti – ha concluso Soro – devono, in ogni caso, essere condotti dal medico competente o da altro personale sanitario e possono comprendere la proposta di test sierologici, i cui esiti devono però essere riservati al medico stesso. Quest’ultimo e’ anche l’unico soggetto legittimato a suggerirli, quali esami specifici da disporre, ove opportuno, in ragione di parametri epidemiologici obiettivi”.

Il contact tracing

Per Soro il tracciamento dei contatti è “uno strumento di prevenzione che certamente non può essere imposto ai lavoratori, assunti o candidati che siano”.  “Sulla scorta delle indicazioni fornite dagli organi del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea – ha ricordato – la specifica norma ha sancito espressamente la natura esclusivamente volontaria dell’adesione al sistema di tracciamento dei contatti, il cui rifiuto non deve determinare alcuna conseguenza pregiudizievole nei confronti dell’interessato”. In sostanza, “la scelta in ordine all’adesione o meno al sistema non deve essere in alcun modo condizionata, neppure indirettamente, dal timore di possibili implicazioni sfavorevoli, che ove prospettate renderebbero comunque illegittima la raccolta dei dati, che risulterebbero per questo motivo inutilizzabili”.

“La necessaria volontarietà del tracciamento – ha concluso il Garante – unitamente ad altre garanzie previste dalla legge sul terreno della protezione dati, costituisce uno dei presupposti essenziali per la fiducia dei cittadini in questo sistema. Che deve poter tracciare non le persone ma il solo riflesso della loro attività epidemiologicamente rilevante: i contatti ravvicinati e duraturi tanto da poter indurre un contagio”.

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