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Mario Morcellini: “Ufficio stampa 2.0, al via nuovo corso”

Brand journalism, il direttore del dipartimento di Comunicazione e di Ricerca sociale alla Sapienza di Roma: “Sempre di più serviranno professionalità e sensibilità orientate ai bisogni degli utenti”

Pubblicato il 09 Nov 2013

Antonello Salerno

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Un corso universitario dedicato al brand journalism, per dare agli studenti strumenti per orientarsi e muoversi in un campo che si diffonde velocemente anche in Italia. Le lezioni partiranno all’Università Sapienza, e a illustrarne il senso è Mario Morcellini, che nel primo ateneo romano è direttore del dipartimento di Comunicazione e di Ricerca sociale.
Professore, come nasce l’idea del corso sul brand journalism?
Da due constatazioni. Intanto dal vuoto che c’è nel rapporto tra impresa e società. Nel secolo scorso le imprese contribuivano autorevolmente alla discussione sulle mete sociali collettive, mentre oggi il rapporto dell’impresa con la società è svuotato, e le aziende sperimentano la difficoltà di narrarsi e proporsi. E poi c’è la crisi del brand tradizionale. Oggi le imprese sembrano ossessionate dal voler affermare la propria identità e il proprio segno, ma gli strumenti del passato sembrano inadeguati, fuori dalla portata dei moderni, che hanno bisogno di stili avanzati e legati ai contenuti.
Perché rivolgersi a giornalisti, e non a esperti di marketing?
Il giornalista conosce meglio di altri la forza della comunicazione per la salute di un’impresa. È un professionista legato all’idea della crisi, nasce e ha fortuna se sa raccontare il cambiamento. È una figura legata al racconto del cambiamento, e per questo ha una sensibilità preziosa.
Ma con l’online cade un livello di intermediazione. Come cambia la comunicazione se l’azienda si rivolge senza filtri al destinatario?
Un problema della rete è la liquidazione dello scambio competente. Il giornalista contribuisce a togliere alle persone la fatica di ordinare le notizie. La rete sembra espugnare questa prerogativa, e lascia intendere che sia possibile accedere direttamente a tutti i contenuti. Ma sul web tutto è in disordine, e dopo le prime ubriacature della disintermediazione emerge il bisogno di contenuti certificati e validati da professionisti competenti.
Il lettore non rischia di essere meno garantito?
No, perché il giornalista ci mette la faccia, la firma. E la sua attività è guidata da un codice deontologico preciso, che è già di per sé una garanzia per il destinatario.
Come cambia e cambierà la professione del giornalista?
Se vuoi fare il giornalista dovrai sempre più affermare il bisogno di intermediazione. Ormai, e sempre più per il futuro, ci sarà bisogno della mediazione e della sensibilità del giornalista anche dove finora non era prevista: orientata al pubblico, alle esigenze degli utenti.
E la qualità della scrittura risente del passaggio all’online?
I tempi della rete, la sinteticità, rischiano di essere caratteristiche “asintattiche”, di far perdere la consecutio temporum e l’attenzione allo stile della scrittura. Ma il problema è transitorio, perché la narrazione ha bisogno delle sue regole. Col tempo si recupererà il valore dell’emotività, e il bello scrivere tornerà naturalmente.
Le notizie sul web rimangono e circolano. Quanto conta come valore aggiunto?
Rispetto alle cosiddette “sabbie mobili del quotidiano”, dove anche la notizia enfatica ha una stagionalità rapidissima, in rete le notizie rimangono, soprattutto se hanno il valore aggiunto dell’intensità e alla qualità. La rete premia la qualità più di quanto non succeda con la carta stampata, e anche su questo si misura la convenienza per le aziende di comunicare bene online.

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