Web, guerra d’identità. Salman Rushdie vs Facebook

Lo scrittore canta vittoria con la piattaforma che voleva obbligarlo a registrarsi con il nome “anagrafico”, Ahmed, in nome della policy aziendale. L’autore dei “Versi satanici” scatenato su Twitter: “Zuckerberg, vieni fuori a discutere!”. Ma la bagarre tocca il nervo scoperto dell’autenticità in rete

Pubblicato il 15 Nov 2011

Ha vinto contro Facebook. Grazie a Twitter. E ora ha di nuovo il
suo profilo sul social network. Una battaglia trascurabile se al
centro della disputa non ci fosse Salman Rushdie, lo scrittore
anglo-indiano autore di alcuni capolavori noti in tutto il mondo
(da "L'ultimo sorriso del moro" a "I figli della
mezzanotte") tuttora bersaglio di una fatwa lanciata nel 1989
da Khomeini per il reato di bestemmia "commesso" dal
romanzo "I versi satanici". "Mi sento un po'
meglio, ora che la faccenda si è risolta – ha scritto Rushdie su
Twitter -: a 64 anni le crisi di identità non sono divertenti. Ho
ricevuto anche le scuse di Facebook".

La disputa è cominciata quando Facebook ha sospeso l'account
dello scrittore ritenendolo un falso. Quando Rushdie ha inviato al
sito la copia del passaporto per provare la propria identità,
Facebook ha riattivato il profilo. Peccato, però: con il nome di
Ahmed (il primo dello scrittore) e non con Salman, il secondo ma
anche quello con cui è universalmente conosciuto.

Rushdie è allora passato al contrattacco su Twitter:
"Zuckerberg, dove ti nascondi? Ridammi il mio nome!" ha
digitato. "Costringendomi a cambiare nome da Salman a Ahmed
Rushdie è come costringere J.Edward a diventare John Hoover – dice
lo scrittore -, o Scott Fitzgerald a trasformarsi in Francis
Fitzgerald". Si scatena un'ondata di twitter e nel giro di
due ore Facebook ripristina l'account – "Salman
Rushdie" – e con tante scuse.
In realtà il caso Rushdie va oltre i confini della baruffa
digitale. Anzi, tocca un nervo scoperto della "vita
digitale" all'interno della quale l'identità appare
sempre più un nodo dirimente: siamo proprio quello che diciamo di
essere online?
Con la trasformazione di Internet in luogo per ogni forma di
relazione, dall'acquisto di scarpe al rovesciamento dei regimi,
si fa più bruciante il dibattito sulle identità di chi naviga. Da
un lato si prevede un sistema in cui Facebook & co. si fanno
"garanti" di passaporti digitali con cui muoversi in
Internet. Dall'altro si riconosce il diritto a indossare abiti,
e talvolta maschere, diverse in modo da poter consumare ma anche
esprimersi più liberamente, senza timore di ripercussioni nella
vita offline, reale.

Il dibattito sugli pseudonimi – conosciuto online come "la
guerra degli pseudonimi" (nymwars) va al cuore di come
Internet possa essere organizzata in futuro. Società Internet come
Google, Facebook e Twitter giocano un ruolo forte nel dibattito con
filosofie aziendali spesso molto diverse fra loro. Facebook, per
esempio, insiste sulla cosiddetta "identità
autenticata", e sta di fatto cercando di imporsi come un
fornitore di passaporto che permette ai suoi utenti di accedere a
altri sette milioni di siti e applicazioni con gli stessi nome e
password usati per Facebook. Spotify e Mog per esempio, due siti di
musica, chiedono ai nuovi utenti di accedere con l'account
Facebook per poter monitorare cosa stanno ascoltando i loro
amici.

Anche il social network di Google, Google+, vuole nomi reali e
scoraggia l'utilizzo di pseudonimi. Anche se recentemente ha
aperto all'uso di alias: Vic Gundotra, executive responsible
per il social network, ha detto in una conferenza che
l'obiettivo è pur sempre mantenere un ambiente
"accogliente" anche per chi usa nomi falsi. Invece
Twitter persegue un approccio più libero permettendo l'uso di
pseudonimi.

Il dibattito sull'identità ha conseguenze molto pratiche. I
dati che riguardano persone reali hanno un grande valore per il
business, oltre che per le autorità governative: Forrester
Research ha stimato che le aziende spendono 2 miliardi all'anno
per l'acquisizione di personal data. Altrettanto cruciali le
conseguenze dell'utilizzo del nome reale in ambito politico:
gli attivisti nel mondo arabo e in Gran Bretagna hanno imparato
presto che l'uso del nome vero può avere conseguenze
immediate.
"La tendenza è una spinta sempre maggiore verso
l'autenticità in rete – dice Joichi Ito, capo Media Lab al
Massachusetts Institute of Technology -. Il che negli Usa può
anche andare bene, ma in Siria no".

"Facebook si è sempre basata su un approccio pro-realtà –
dice Elliot Schrage, vice president of public policy a Facebook -.
Noi fondamentalmente crediamo che questo porti a
un'affidabilità e una fiducia maggiore nell'ambiente
digitale in cui l'utente si muove". Ma l'identità
reale è anche cruciale per l'azienda che sta entrando nel
business delle transazioni, per esempio per biglietti aerei. Al
contrario Twitter difende con vigore l'uso di pseudonimi, in
controtendenza con le richieste avanzate dal governo britannico in
occasione, per esempio, dei disordini in Gran Bretagna.

Per i consumatori l' approccio "reale" può essere
una benedizione. Significa non dover memorizzare un numero
gigantesco di password per siti diversi. Ma significa anche
regalare informazioni ai nuovi "intermediari di
identità", come Chris Hoofnagle, docente di diritto presso
l'Università di California, Berkeley, chiama Facebook ecc.
"È senz'altro molto più comodo – ha detto -. Ma vogliamo
davvero che Facebook e Google sappiano cosa stiamo facendo?"

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