AGENDA DIGITALE

Cie, ecco tutti gli errori da non ripetere

Costi troppo alti e mancanza di una governance unica hanno fatto naufragare la vecchia carta digitale. Colli Franzone (Netics): “Evitare che la nuova card unica diventi un monstrum hi-tech”

Pubblicato il 17 Set 2012

Federica Meta

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Dieci anni di sperimentazione, 60 milioni di euro di investimento, 4 milioni di carte di identità elettroniche (Cie) emesse da 200 Comuni. Sono i numeri del progetto della carta di identità elettronica rilanciato a più riprese da tutti i governi che si sono succeduti in questi anni e che si è rivelato un completo fallimento. Un fallimento determinato da un serie di ostacoli che il documento unificato speriamo non debba mai incontrare sulla sua strada.

Secondo Paolo Colli Franzone, direttore di Netics nonché uno dei massimo esperti di Cie, “bisognerebbe evitare che anche questo nuovo strumento diventi un ‘monstrum’ dove ognuno aggiunge qualcosa senza però spiegare a cosa serve questo qualcosa. L’errore – aggiunge -, in questo senso, è stato quello di non aver mai elaborato un piano di marketing per la carta elettronica con il risultato che nessun governo ha mai capito cosa ci si dovesse fare con quello strumento, dato che i famigerati servizi pubblici digitali ai quali si doveva accedere non sono mai partiti, se non in poche Regioni, Lombardia e Friuli Venezia Giulia soprattutto”.

L’esperto si riferisce al fatto che nella sua versione originaria la carta di identità digitale doveva essere munita di banda ottica come supporto di memoria, poi accantonata a favore del chip sul quale si sarebbe potuta inserire anche la firma digitale. Un cambiamento che ha contribuito a far lievitare i costi a carico dei cittadini – arrivati a sfiorare i 30 euro dai 15 di partenza per ogni documento rilasciato – ma che è stato a sua volta messo da parte. Il motivo? La questione della sicurezza: il microprocessore escludeva di fatto la possibilità di controllo a vista della persona, in quanto le forze di polizia e di frontiera non dispongono di strumenti di lettura adeguati.

Ad ostacolare il progetto anche i costi a carico dei Comuni, obbligati per legge ad acquistare una stampante ad hoc da 8mila euro. Una cifra enorme soprattutto per gli enti più piccoli che rilasciano pochissime carte ogni anno e che non giustificano la spesa da sostenere.

“L’errore madornale in questo caso è stato quello di non aver consentito alle piccole amministrazioni – sottolinea Colli Franzone – di fruire di un centro servizi unico dotato di un solo apparecchio per la stampa da condividere per abbattere i costi di spesa”. Uno sbaglio da non ripetere con il documento unificato, soprattutto in un momento in cui le PA sono vincolate al patto di stabilità che rende difficile mettere in campo nuovi investimenti. Non è un caso se l’Anci ha dato piena disponibilità a collaborare sul documento purché si chiariscano subito tempi e modalità di spesa del progetto.

“Non vorremmo trovarci a dover essere obbligati – dicono al Corriere delle Comunicazioni – a tagliare altri servizi per mandare avanti la nuova Cie. Vorremo poter garantire welfare e innovazione”.

Ma la madre di tutti gli errori riguarda l’organizzazione. Il vero punto di debolezza del progetto originario stava nell’assenza di anagrafi “allineate”.

“Il governo è intenzionato a creare un’anagrafe nazionale. Ma temo che senza una governance unica in capo al ministro che detiene le deleghe per l’Innovazione – rilancia Colli Franzone – rischia di arenarsi. Così come è stato per la ‘vecchia’ Cie anche la card unificata verrà lanciata su proposta del ministro dell’Interno, di concerto con il ministro dell’Economia, con il ministro della Salute, con il ministro per la PA e con il ministro delegato per l’innovazione tecnologica. Sembra un film già visto: ministeri e ministri che mettono veti e paletti, facendo naufragare il progetto”. Ma speriamo che stavolta il passato abbia insegnato qualcosa.

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