IL REPORT

In Italia open data al palo, la mancanza di competenze frena l’innovazione

Solo il 37% dei Comuni pubblica informazioni in formato aperto e appena il 4% delle imprese le usa per il business. I risultati delle ricerche condotte dall’Osservatorio eGovernment e da Unioncamere dimostrano come siano gli skill la chiave dello sviluppo

Pubblicato il 26 Set 2018

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In Italia gli open data stentano a decollare sia nella PA sia nelle imprese.  La fotografia è scattata da due ricerche condotte dall’Osservatorio eGovernment della School of Management del Politecnico di Milano sulle PA locali e da Unioncamere sulle imprese italiane.

Nonostante una legislazione all’avanguardia che invita tutte le PA a rilasciare i dati per essere liberamente usati, riutilizzati e ridistribuiti da chiunque ne abbia interesse, l’Osservatorio rileva che solo un Comune su tre – da segnalare che questi enti detengono la parte dei patrimonio informativo di maggiore interesse (trasporto pubblico, turismo, cultura) – pubblica dati in formato open. E quando avviene, questo è percepito dagli enti più come un obbligo normativo che un’opportunità, anche perché si fatica a comprenderne la reale utilità: i dati sono di bassa qualità, poco accessibili, non uniformi per un utilizzo a livello nazionale. E così, l’80% dei Comuni non riscontra alcun impatto positivo dalla pubblicazione di open data e il 55% li ritiene addirittura inutili o poco utili per la crescita del tessuto imprenditoriale.

I Comuni italiani sono ancora agli inizi del processo di pubblicazione del proprio patrimonio informativo e un’enorme quantità di dati non è disponibile in formato open. Il primo passo per favorirne lo sviluppo deve essere culturale: è necessario trasmettere agli Enti Locali l’importanza di questa attività, non solo per una mera questione di trasparenza, ma per incentivare e aiutare lo sviluppo del tessuto economico e sociale del paese. I Comuni devono essere coinvolti, resi partecipi fin dalle fasi iniziali ed è importante che abbiano le risorse adeguate per rendere i dati fruibili in formato aperto”.

I dati della PA condivisibili in formato open possono essere messi al servizio del territorio e accelerare lo sviluppo del tessuto imprenditoriale. Se raccolti, ordinati, gestiti e pubblicati in modo efficiente, possono consentire alle imprese di informarsi in modo approfondito sulle caratteristiche e sulla segmentazione dei potenziali clienti, identificandone attività, spostamenti e trend di comportamento, con una descrizione dettagliata del territorio (geografica, urbanistica, sociale, culturale e demografica) per una pianificazione raffinata e affidabile delle attività di business.

“Si denota una grande varietà di tipologie di dati pubblicati, mentre non ci sono categorie di dati pubblicati da tutti i Comuni – rileva Michele Benedetti, Direttore dell’Osservatorio eGovernment – Questo rende difficile fare massa critica per un possibile utilizzo dei dati a livello nazionale. Per superare questo ostacolo, un ruolo fondamentale spetta a Regioni e Enti Centrali, in particolare AgID e Team Digitale, che dovranno dettare gli standard, le linee guida e accompagnare gli Enti nel processo di creazione e pubblicazione di open data di qualità e uniformi su tutto il territorio nazionale, iniziando a definire una priorità dei dataset da pubblicare”.

Su 731 Comuni italiani, solo il 37% ha già pubblicato dati in formato open. Una percentuale che cambia notevolmente a seconda del numero di abitanti dell’Ente: arriva all’86% tra i Comuni di grande dimensione, con più di 50mila abitanti, e cala al 28% per i piccoli, sotto i 5.000 abitanti. L’indagine evidenzia molta incertezza sull’utilità di pubblicare i dati: la maggioranza degli Enti ritiene che siano utili soprattutto a monitorare l’operato dell’Amministrazione da parte dei cittadini, mentre la crescita del tessuto imprenditoriale è considerata inutile o poco utile dal 55% dei Comuni. Con la conseguenza che ben il 60% dei Comuni non ha registrato alcun impatto positivo sul territorio a seguito della pubblicazione.

La ricerca ha provato a classificare i Comuni sulla base delle dimensioni utilizzate dal Desi (Digital Economic Society Index) per misurare il grado di maturità dei Paesi europei. Secondo questo indice, che a livello europeo considera solo le iniziative nazionali, l’Italia si posiziona tra le prime in Europa in campo open data. Come si comportano invece gli Enti locali? Circa il 59% dei Comuni, la maggior parte di piccole o piccolissime dimensioni, si trova nei gruppi più arretrati: il 29% nel gruppo dei Beginner (quelli che si sono appena affacciati agli Open Data, iniziando a pubblicare i primi dataset e a definire ruoli e responsabilità), il 30% in quello dei Follower (che hanno iniziato a pubblicare i primi dati di qualità, anche con una struttura organizzativa nulla o insufficiente a supporto, e hanno generato scarsi impatti sul territorio). C’è poi un 34% di Comuni, equamente distribuiti sulle diverse fasce dimensionali, Fast-Traker: enti abbastanza maturi per numero e nella qualità dei dataset pubblicati e/o per qualità dell’organizzazione a supporto del processo di gestione dei dati, ma che devono ancora migliorare per ottenere impatti significativi sui propri territori di riferimento. Infine, il 7%, quasi tutti al di sopra dei 50.000 abitanti e nessuno al di sotto dei 10.000, rientra nel gruppo dei Trendsetter con un adeguato livello di organizzazione e qualità del dato.

Ma che tipi di dati pubblicano i Comuni italiani? Di tipologie molto diverse. Nel 71% dei casi dati di amministrazione (dipendenti comunali, risultati elezioni, bilanci, spese e acquisti dell’amministrazione, bandi pubblici), nel 25% del territorio (come topografia, vincoli ambientali, piani comunali), nel 20% tributi, nel 18% su sport, cultura e tempo libero (associazionismo, musei, biblioteche, luoghi ed eventi culturali, centri sportivi, eventi sportivi), nel 17% sulla popolazione residente (numero di abitanti, di stranieri, di giovani/anziani): non ci sono categorie di dati pubblicati da tutti i Comuni in modo uniforme e questo rende difficile fare massa critica per un possibile utilizzo a livello nazionale. Inoltre, i dati sono poco accessibili: la maggior parte dei Comuni li pubblica nella propria sezione trasparenza (il 83%) o sul sito istituzionale in una sezione ad hoc (33%), solo l’8% sul sito open data della regione e solo il 2% sul sito open data nazionale.

I principali formati dei dati pubblicati sono quelli “base”: il 53% in .csv, il 43% in Excel, sono praticamente assenti forme più avanzate. Solo nel 33% dei casi il dato viene prodotto automaticamente dal software, nel resto dei casi ha bisogno di almeno un passaggio manuale di un operatore, con maggior impiego di risorse e problemi di tempestività nella pubblicazione, oltre che di possibili errori umani nel dataset pubblicato. Nella maggioranza dei casi il dato pubblicato viene poi aggiornato, ma l’84% richiede un operatore addetto a quest’attività. Solo il 31% dei Comuni accompagna il dato con metadati. Nella quasi totalità dei casi (il 95%) manca una qualsiasi forma di monitoraggio dell’effettivo utilizzo dei dati da parte dell’utente.

Nell’opinione degli Enti, i principali ostacoli alla pubblicazione di open data sono la scarsità di competenze interne (50%) e la scarsità di personale interno (42%), seguiti dalle ridotte risorse economiche da dedicare (24%) e dal poco interesse della componente politica (23%). Ma si segnala anche la bassa conoscenza di ciò che e` opportuno pubblicare (20%) e la mancanza (o la non conoscenza) di standard (16%). Coerentemente, la principale richiesta degli Enti è di avere in futuro un supporto nello sviluppo di competenze e un aiuto economico per questa attività.

“Nei Comuni italiani appaiono totalmente assente visione strategica e modelli organizzativi per la pubblicazione degli open data – spiega Benedetti – Nel 76% degli enti non è presente una figura o un gruppo di supporto specifico per la pubblicazione di open data e ben il 92% non ha un piano di rilascio”. Manca infine la conoscenza delle iniziative portate avanti a livello nazionale: il 64% dei Comuni che pubblicano open data non conosce l’esistenza dello standard Dcat_IT per le ontologie, il 74% non sa cosa sia il Data and Analytics Framework (Daf).

Non va meglio nelle imprese. Anche se ben il 77% delle manifatturiere considera strategico l’uso dei dati per il business, l’utilizzo di open data da fonte PA è riservato ancora a pochi pionieri, appena il 4% del totale, anche se il 45% vorrebbe conoscerli meglio. Perché possano essere utilizzati, i dati devono essere di qualità, aggiornati e corretti, con la ragionevole certezza di poter contare sulla disponibilità anche in futuro, ma le imprese devono anche acquisire maggiore consapevolezza delle grandi potenzialità legate al loro utilizzo e maggiore conoscenza sulle figure professionali necessarie per il data management (sconosciute al 68% del totale).

Probabilmente per una scarsa conoscenza delle funzioni più avanzate, le imprese vedono come driver di sviluppo ancora le funzionalità più classiche dell’utilizzo dei dati, come la possibilità di catturare, gestire e archiviare tutti i dati aziendali, o renderli disponibili a tutti i livelli. Solo il 21% considera il dato come possibile fonte predittiva per anticipare le tendenze di mercato.

Il 70% delle aziende sostiene di essersi dotata di strumenti/competenze per il data management, ma in realtà il 68% non conosce l’esistenza di figure professionali come il Big Data Analytics specialist (presente solo nel 13% del campione analizzato), il Chief Data officer (8%), il Data Scientist (5%) o il Big Data Architect (5%), con un forte disallineamento tra la percezione e l’utilizzo reale delle figure professionali utili. Come supplenza, buona parte del campione si rivolge a fornitori specializzati, pochi fanno accordi con startup e un’esigua percentuale provvede alla riqualificazione del personale interno.

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