AGENDA DIGITALE

Rompicapo data center

Banche dati che non si parlano, PA restie a “cedere” le informazioni, soldi che non ci sono. La “rivoluzione” open data non sarà cosa semplice e anzi si rischia l’ennesima impasse

Pubblicato il 15 Lug 2013

Federica Meta

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A fine 2012 il governo britannico di David Cameron ha annunciato un investimento di 8 milioni di sterline per spingere le amministrazioni di Sua Maestà a rilasciare dati in modalità “open”. Ma se la Gran Bretagna, pioniera d’Europa, sceglie di sostenere politicamente e finanziariamente la rivoluzione dei dati, lo stesso non accade in Italia dove, nonostante il decreto Crescita 2.0 abbia provato a dare una cornice legislativa al passo coi tempi, la pubblicazione “intelligente” delle informazioni stenta a decollare e le pubbliche amministrazioni non riescono a trovare la quadra delle strategie relative al rilascio dei dati pubblici.

Fatta eccezione per i progetti di singoli Comuni, che autonomamente hanno iniziato a rilasciare dataset, e per le iniziative Elicat/Elifis e Git, finanziati nell’ambito del programma Elisa, avviate per supportare il processo di recupero dell’evasione fiscale, il nostro Paese sconta un forte ritardo. A pesare è soprattutto l’eccessiva frammentazione dei data center pubblici (nella sola PA centrale le stime parlano di oltre mille data center che ospitano oltre 20mila server per un costo annuo di gestione di 450 milioni di euro) nella maggior parte dei casi non interoperabili e quindi incapaci di condividere le risorse pubbliche “aperte”. L’Agenzia per l’Italia digitale sta lavorando a un progetto di consolidamento delle infrastrutture IT da un lato per facilitare l’interazione tra PA e cittadino e, dall’altro, per rendere piè efficiente il flusso di comunicazioni tra gli enti, dando così la stura agli open data made in Italy.

Ma le difficoltà che stanno dietro al progetto del direttore genetale Agostino Ragosa non sono poche. A cominciare da quelle di natura squisitamente economica. Un progetto nazionale di riorganizzazione presuppone un investimento notevole di risorse che nemmeno la stessa Agenzia riesce a stimare. Risorse che in larga parte dovrebbero essere reperite da Regioni ed enti locali, oggi stretti nella morsa del patto di stabilità. “Siamo ovviamente pronti a collaborare con Agid – dicono dalla Conferenza delle Regioni al Corriere delle Comunicazioni – ma il tema di dove e come reperire i soldi necessari deve essere affrontano in maniera prioritaria. Per ora non abbiamo ricevuto segnali in questa direzione. La speranza è che l’uscita dalla procedura di infrazione Ue possa aprire la strada a investimenti pro-competitivi come sono quelli in Ict”.

Oltre a quelle economiche sussistono anche criticità di carattere organizzativo e culturale forse ancora più “frenanti”, come evidenzia Giuliano Noci docente del Politecnico di Milano e direttore dell’Osservatorio eGovernment del Polimi.

“L’integrazione presuppone una certa qualità del dato da trattare, ma le banche dati gestite negli anni dagli enti pubblici non sempre presentano un livello qualitativo all’altezza dell’obiettivo auspicato – spiega Noci -. Inoltre lo scambio e la condivisione dei dati presuppone spesso una ridefinizione dei ruoli di aggiornamento e gestione degli stessi e quindi una definizione delle regole organizzative per la condivisione dei dati. In molti casi i progetti gestiti su queste tematiche sottovalutano questi aspetti che poi diventano il vero freno allo sviluppo e all’evoluzione delle iniziative”.

Sul fronte culturale persiste invece ancora la convinzione che la produzione e la gestione dei dati sia “ontologicamente” connessa alle funzioni,e, quindi, all’esistenza stessa della Pubblica amministrazione. In questa prospettiva “apririli” e renderli pubblici viene considerata una cessione di potere non accettabile.

“Al di là dei proclami e delle posizioni ufficiali – sottolinea l’esperto del Polimi – molti progetti si trovano in difficoltà proprio perché non sempre tutti gli attori del processo sono disposti a condividere i propri dati con cittadini e imprese che, invece, avrebbero tutti i diritti di entrarne in possesso. Questo causa resistenze e inerzie che, di fatto, portano spesso al rallentamento e a volte al fallimento di queste iniziative”.

Che fare dunque per far scoppiare la rivoluzione open data? Alla volontà di carattere strategico si deve in particolare accompagnare un coordinamento operativo. Dovrebbero essere tre i pilastri della strategia dell’Agenzia per l’Italia digitale: modelli di project management, autorità che possano contribuire a sciogliere il nodo culturale e soprattutto tempi certi di realizzazione .

“È questo – evidenzia Noci – il nodo gordiano delle pubbliche amministrazioni italiane. La necessità che ogni regolamentazione indirizzata alla semplificazione preveda tempi di applicazione certi e conseguenti severe sanzioni in tutti i casi in cui la non-applicazione tenti di farla franca. Il Dna italiano della frammentazione e del pluralismo, retaggio della gloria dei Comuni, sembra trasformarsi sempre più, nell’epoca della competizione globale, in una vera e propria palla al piede”.

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