LA RICERCA

Meglio un robot che il capo: il 57% dei lavoratori italiani la pensa così

Da un sondaggio di Oracle che indaga i livelli di ansia e stress dovuti allo smart working emerge una forte propensione all’uso di chatbot e sistemi di intelligenza artificiale. Un segnale allarmante sulle dinamiche relazionali che si stanno creando a seguito della pandemia

Pubblicato il 08 Ott 2020

A. S.

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Lavorare durante il lockdown, “costretti” a uno smart working d’emergenza, spesso con mezzi di fortuna e con una serie di problemi personali da risolvere, è stato particolarmente stressante. A confermarlo è lo studio “AI @ Work 2020” realizzato da Oracle in collaborazione con Workplace Intelligence, realizzato su un campione di 20mila persone su scala globale. La pandemia, secondo i risultati della ricerca, ha aumentato lo stress, l’ansia e il rischio di burn-out, tanto che chi si trova difficoltà preferirebbe rivolgersi a dei “bot” potenziati dall’intelligenza artificiale invece che ad altre persone o al proprio manager.

L’impatto del Covid-19 sulla salute mentale della forza lavoro

Tra le conseguenze che sono emerse a seguito del lockdown ci sono innanzitutto l’ansia e depressione legati al lavoro: il 70% del campione della ricerca afferma di aver sofferto di stress nel 2020 più che in qualunque altro anno precedente. Situazione che ha avuto un impatto negativo sul benessere psicologico del 78% della forza lavoro globale, a causa di stress (38%), mancanza di equilibrio tra lavoro e vita privata (35%), burn-out (25%), depressione da assenza di socializzazione (25%) e solitudine (14%). A queste motivazioni specifiche dell’emergenza pandemia vanno poi ad aggiungersi quelli più tradizionali, come la pressione per raggiungere i risultati (42%), la gestione di attività noiose e/o di routine (41%) e il fatto di dover affrontare carichi di lavoro sentiti come ingestibili (41%).

Restringendo il campo alla situazione italiana, il quadro è leggermente meno accentuato rispetto a quello internazionale: il 62% del campione nazionale infatti dichiara che questo è stato l’anno più stressante di sempre e il 65% dice di aver sofferto l’impatto negativo sul proprio benessere psicologico.

Gli influssi del lavoro sulla vita privata

Gli effetti dello stress sul lavoro, come era prevedibile e come la ricerca Oacle conferma, si sono fatti sentire anche sulla vita privata: l’85% del campione globale (in Italia la percentuale scende al 78%)si dice convinto che i problemi di salute mentale e benessere psicofisico legati al lavoro si riflettono anche sulla vita privata, e hanno effetti come la privazione del sonno (40%), la cattiva salute fisica (35%), la riduzione della serenità domestica (33%), la sofferenza nei rapporti familiari (30%) e l’isolamento dagli amici (28%). Con il “confondersi” dei confini tra il lavoro e la vita privata, inoltre, con lo smart working il 35% del campione afferma di aver lavorato oltre 40 ore in più ogni mese, mentre il 25% dice di aver subito un burn-out da super lavoro.

Lo smart working resta una modalità di lavoro “interessante”

 Al di là di problemi e svantaggi, in ogni caso, il 62% del campione afferma di trovare il lavoro da remoto più interessante ora rispetto a prima della pandemia. Il 51% dice di aver avuto più tempo da trascorrere con la famiglia, il 31% di aver avuto più tempo per riposare e il 30% per portare a termine i propri compiti. Una considerazione che rimane positiva anche restringendo il campo all’Italia, dove il 59% del campione è ben disposto rispetto al lavoro da remoto, più di quanto lo fosse prima dell’emergenza cuasata dalla pandemia.

Il ruolo della tecnologia: robot preferibili agli umani?

Per chi è impegnato nello smart working la tecnologia non è soltanto sinonimo di strumenti efficaci per lavorare, ma anche di strumenti di sostegno al loro benessere mentale. Ne deriva che solo il 18% degli intervistati ha dichiarato che preferirebbe aprire un discorso sulla propria salute mentale con una persona invece che con un “robot”, dal momento che un sistema basato sull’intelligenza artificiale potrebbe creare una “free zone”, una “zona priva di giudizio” (34%), e dimostrarsi un interlocutore imparziale (30%) che dia risposte rapide su domande specifiche relative alla propria salute mentale (29%). Così il 68% del campione a livello globale, che in Italia diventa il 57%, preferirebbe parlare con un robot piuttosto che con il proprio manager dello stress e dell’ansia sul lavoro, e l’80% (71% per l’Italia) è aperto all’idea di utilizzarlo come consulente o terapeuta.

Il ruolo dell’Intelligenza artificiale sul lavoro

Secondo il 75% degli intervistati l’Intelligenza Artificiale ha già dato un contributo positivo al benessere psicologico, rendendo disponibili le informazioni necessarie per svolgere il proprio lavoro in modo più efficiente (31%), automatizzando le attività e riducendo i carichi di lavoro dei singoli, prevenendo il burnout (27%), riducendo lo stress grazie al supporto nel dare le giuste priorità alle varie attività (27%). Per il 51% del campione inoltra ha consentito loro di prendersi più tempo di riposo, contribuendo ad aumentare la produttività dei dipendenti (63%), migliorando la soddisfazione sul lavoro (54%) e il benessere generale (52%).

La tecnologia a supporto del benessere mentale

L’ 83% della forza lavoro globale, che in Italia si riduce al 75%, vorrebbe che la propria azienda fornisse tecnologia per supportare il benessere psicofisico e la salute, per esempio con servizi di accesso self-service alle risorse sanitarie (36%), servizi di consulenza su richiesta (35%), strumenti proattivi di monitoraggio della salute (35%), app per il benessere o la meditazione (35%) e chatbot per rispondere velocemente a domande relative alla salute (28%).

“Con la nuova situazione legata al lavoro a distanza le demarcazioni tra vita personale e professionale si sono sfumate; in generale il peso del Covid-19 sulla salute mentale è risultato significativo, ed è qualcosa che riguarda lavoratori di ogni settore e paese – spiega Dan Schawbel, managing partner di Workplace Intelligence – La pandemia ha messo anche la salute mentale in primo piano: è il più grande problema della forza lavoro del nostro tempo e lo sarà per il prossimo decennio. I risultati del nostro studio mostrano quanto sia diventato diffuso questo problema e perché ora è il momento per le organizzazioni di iniziare a parlarne ed esplorare nuove soluzioni”.

“Con la pandemia globale, la salute mentale è diventata non solo una questione sociale più ampia, ma una delle principali sfide sul posto di lavoro – aggiunge Emily He, vicepresidente senior di Oracle Cloud Hcm – Ha un impatto profondo sulle prestazioni individuali, sull’efficacia del team e sulla produttività organizzativa. Ora più che mai,si tratta di un argomento importante in azienda, e i dipendenti chiedono ai datori di lavoro di farsi avanti e fornire soluzioni. Si può fare molto per supportare la salute mentale della forza lavoro, e ci sono tanti modi in cui la tecnologia come l’AI può aiutare – conclude – Ma prima di tutto le organizzazioni devono mettere il benessere mentale delle persone tra le proprie priorità. Se riusciamo a far partire una riflessione aperta e costruttiva sull’argomento, sia a livello delle risorse umane che a livello dirigenziale, possiamo attivare un cambiamento. Ed è giunto il momento di farlo”

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