Call center, Taddei: “Con il Jobs Act più tutele e più produttività”

Il responsabile Economia del Pd: “Per il governo il contratto a tutele crescenti resta il principio cardine anche per i lavoratori outbound. I co.co.pro opzione lasciata alle responsabilità delle parti sociali”

Pubblicato il 18 Mar 2015

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“L’obiettivo del governo è favorire la trasformazione produttiva e lo spostamento di professionalità dai settori sovradimensionati – quello dei call center è un esempio – ad altri dove c’è una maggiore domanda di occupazione. A questo mira la parte del Jobs Act relativa alle politiche attive, che si sta affinando in queste settimane, e alle tutele come la Naspi”. Filippo Taddei, responsabile Economia e Lavoro del Pd e stretto collaboratore del premier sul “dossier” riforme del lavoro, spiega a CorCom quale impatto avranno le nuove regole sul settore del call center.

Il governo aveva promesso di eliminare tout court i co.co.pro. e invece li ha mantenuti per i lavoratori dei call center outbound…

Prima di tutto il governo non ha fatto questa scelta pensando ai call center, nello specifico. Si tratta di una decisione presa per rispondere a specifiche esigenze settoriali dove, non necessariamente e non sempre, il lavoro dipendente si rivela una scelta efficace per il datore di lavoro e per il lavoratore. Nel caso dei call center outbound queste esigenze nascono dal fatto che le attività svolte sono legate a commesse di breve durata e remunerate a fronte dei risultati ottenuti. Una condizione che non sempre si concilia con la formula del lavoro subordinato, eterorganizzato nello spazio e nel tempo, che è il principio fondante del contratto a tempo indeterminato o a tutele crescenti.

Ma questa decisione non rischia di frenare la diffusione del contratto a tutele crescenti nei call center, stravolgendo in parte gli obiettivi del Jobs Act che mira a dare diritti a chi finora non li ha avuti?

Guardi, quello a tutele crescenti non è l’unico ma resta il contratto centrale, il più incentivato, con cui speriamo di assorbire la stragrande maggioranza dei parasubordinati, dei lavoratori a progetto, delle figure ibride. Il contratto di collaborazione resta come opzione lasciata alla responsabilità della parti sociali, datori di lavoro e sindacati (i co.co.pro. sono regolati da un accordo sindacale del 2013 ndr).

Ma comunque per le aziende resterà più conveniente inquadrare un lavorare con un contratto a progetto.

I co.co.pro non sono incentivati fiscalmente. Questo perché l’intenzione del governo è rendere per le imprese più conveniente assumere a tempo indeterminato che a tempo determinato o a progetto, tramite il rapporto a tutele crescenti e le agevolazioni fiscali, favorendo l’ingresso dei lavoratori precari in lavori più stabili. Inoltre introducendo l’indennizzo per i licenziamenti ingiustificati vogliamo una condivisione del rischio tra lavoratore ed imprenditore. Il Jobs Act ha dunque posto le basi per la trasformazione produttiva del nostro Paese e per il miglioramento delle professionalità.

In che senso?

Faccio una premessa generale. Le economie avanzate competono non solo sull’innovazione e la trasformazione di nuovi prodotti, ma sulla capacità di gestione della tecnologia. Noi abbiamo un enorme bagaglio di competenze e qualità del capitale umano ma dobbiamo ragionare sul mercato del lavoro. Abbiamo depauperato le competenze delle persone, e scaricato il peso della crisi del cambiamento solo su alcuni. L’iniquità di oggi ha a che vedere con la mancanza di riforme. Abbiamo così creato la categoria della para-subordinazione: i quasi-dipendenti o quasi-autonomi, un mezzo milione di italiani con quasi tutele. Tutte persone nella stessa condizione ma in modi diversi. Il ragionamento di fondo è che solo il lavoro stabile e duraturo può consentire al lavoratore di affermare ed “affinare” nel tempo le proprie competenze professionali per garantire lo spostamento dai settori sovradimensionati, come appunto i call center, ad altri dove la domanda di lavoro è in crescita.

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