Dopo anni di pressioni, lettere aperte e lobbying serrato, le grandi telco europee si trovano di fronte a una verità scomoda: la Commissione europea ha chiuso la porta, forse definitivamente, all’ipotesi di una tassa di accesso per i giganti del web. Niente “fair share”, niente contributo diretto da Google, Meta, Amazon o Netflix per sostenere la manutenzione e l’espansione delle reti.
Per il settore delle telecomunicazioni, che da tempo denunciava l’insostenibilità di un modello in cui gli investimenti miliardari in fibra e 5G non sono accompagnati da ricavi proporzionati, si tratta di un colpo secco. Deutsche Telekom, Orange e Telefónica, ma anche gli operatori italiani, avevano agitato lo spettro di un internet schiacciato dal traffico video e dal cloud computing. La Commissione, invece, ha replicato con numeri e principi: nessuna evidenza dimostra che l’introduzione di un pedaggio digitale avrebbe accelerato i rollout o migliorato la qualità dei servizi. Al contrario, si sarebbe rischiato di intaccare la neutralità della rete, frammentare il mercato unico e mettere i piccoli operatori in svantaggio.
Il verdetto del luglio 2025 è stato netto. “Imporre una network fee non è una soluzione praticabile”, ha dichiarato il portavoce della Commissione, Thomas Regnier, richiamando i risultati del Libro bianco sulla connettività. È una presa di posizione che, oltre a rassicurare Washington nell’ambito dell’intesa commerciale transatlantica, chiude un capitolo che molti consideravano già logoro.
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Le telco al bivio
Il punto però che i problemi economici degli operatori restano intatti: margini in caduta, concorrenza feroce, mercati saturi e costi in crescita per reti sempre più capillari. Senza la spinta di un contributo da parte dei big della Silicon Valley, le telco europee dovranno cambiare pelle. E lo stanno già facendo: investono in cloud e cybersecurity, sviluppano soluzioni edge e IoT per l’industria, siglano accordi per reti private 5G nei settori strategici come sanità, trasporti ed energia. Perfino il modello “network-as-a-service” – l’affitto di fette virtuali di rete a terzi – sta guadagnando terreno come nuova fonte di ricavi.
È questa forse la conferma che l’era del “subsidized telecom” – il sogno di far pagare alle piattaforme digitali il peso della transizione – è finita prima di iniziare.
La partita politica: il Digital Networks Act
La vera sfida si sposta ora sul piano regolatorio. Entro fine 2025 arriverà il Digital Networks Act (Dna), l’architrave su cui Bruxelles vuole ricostruire l’ecosistema tlc europeo. L’obiettivo è duplice: da un lato garantire che gli obiettivi del Digital Decade – gigabit per tutti e copertura 5G completa – restino a portata di mano; dall’altro modernizzare un quadro normativo ormai anacronistico.
Permessi più rapidi per fibra e antenne, fondi transfrontalieri per le grandi dorsali, incentivi per le aree rurali, standard minimi di servizio e soprattutto un equilibrio tra investimenti pubblici e privati: il Dna promette di essere, nelle intenzioni della Commissione Ue un atto coraggioso e orientato al futuro.
Ma la possibilità di un “fair share” di ritorno, sotto altre forme – dispute-settlement, meccanismi di coordinamento, nuove tariffe indirette – resta sullo sfondo. Le associazioni per i diritti digitali lo sanno bene: da mesi ammoniscono che qualsiasi varco aperto a forme di pedaggio rischia di trasformarsi in una tassa occulta sull’accesso alla rete, con conseguenze su neutralità, concorrenza e innovazione.
La lezione per l’Europa
La vicenda dimostra che il futuro delle tlc europee non potrà essere “scaricato” sui giganti del web. Sarà invece il frutto di una politica industriale consapevole, di alleanze tra pubblico e privato, e di un cambio di paradigma da parte degli stessi operatori.
Non sarà la “fair share” a finanziare la rivoluzione digitale europea, ma la capacità di costruire reti resilienti, sostenibili, sicure. In altre parole: non più la scorciatoia della tassa, ma la strada lunga della visione.