Negli ultimi anni, gli operatori di telecomunicazioni europei hanno continuato a lanciare l’allarme: i ricavi sono in forte calo e competere con gli hyperscaler sembra impossibile. Le loro richieste di protezione politica, attraverso meccanismi come un contributo di “fair share” da parte dei giganti digitali o l’allentamento delle regole sulla neutralità della rete, si sono fatte sempre più insistenti.
Eppure, nonostante questi appelli, la conversazione si è spostata quasi interamente sul tema del consolidamento del mercato tramite fusioni e acquisizioni. Lo spostamento è in parte il risultato di pressioni finanziarie, molti azionisti hanno visto i ritorni sul capitale costantemente al di sotto della media, e in parte riflette una crescente rassegnazione circa le possibilità di riforme regolatorie o di politica industriale significative a livello europeo.
Le recenti operazioni tra Vodafone e Fastweb in Italia (a seguito dell’acquisizione di Vodafone Italia da parte di SwissCom) e tra Orange e Masmovil in Spagna, insieme ad altre transazioni oggi in discussione, hanno dato all’industria la sensazione che si stia aprendo una fase decisiva, destinata a ridisegnare il settore nei prossimi anni.
Non vi sono però evidenze formali che le autorità antitrust europee o nazionali abbiano modificato il proprio orientamento. Negli ultimi vent’anni, la politica della concorrenza nelle telecomunicazioni è stata plasmata dalle Merger Guidelines dell’UE (adottate nel 2004 e 2008) e da una serie di decisioni caso per caso che hanno consolidato nel tempo “regole non scritte”, la più nota delle quali è il “numero magico” di quattro operatori per Stato membro.
Quest’anno, la Commissione Europea ha lanciato una consultazione pubblica, ora chiusa, sulla revisione delle linee guida alla luce dei profondi cambiamenti portati dall’integrazione europea e dalla competizione globale. Sebbene la revisione riguardi tutti i settori, è significativo che in un recente dibattito Emanuele Tarantino, Capo Economista presso DG Competition, abbia citato proprio le telecomunicazioni come esempio. Guardando agli indicatori di riferimento delle autorità, egli ha sostenuto che non vi siano prove di calo degli investimenti o riduzione dell’innovazione nelle telecomunicazioni tali da giustificare un cambiamento radicale di policy.
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La necessità di aggiornare gli strumenti
Le complessità della politica della concorrenza, degli strumenti regolatori e degli indicatori economici per la valutazione dei mercati sono materia da specialisti, e io non lo sono. Tuttavia, da esperto del settore, credo che le telecomunicazioni offrano un caso di studio particolarmente rivelatore. Mostrano come l’applicazione di regole metodologicamente impeccabili, ma scollegate dal contesto più ampio dell’integrazione europea e del mutato panorama competitivo globale, possa accentuare le fragilità croniche dell’economia europea.
Anche nelle telecomunicazioni, tuttavia, il bisogno di aggiornare gli strumenti regolatori non ha risposte semplici. Concedere agli operatori quanto chiedono, meno vincoli, ad esempio accettando tre operatori invece di quattro per paese, senza una più ampia ridefinizione delle strategie pubbliche rischia di non raggiungere gli obiettivi di crescita e competitività che i decisori politici si sono posti.
Tradizionalmente, il primo indicatore a guidare le politiche antitrust è il livello degli investimenti, seguito dalla capacità di innovazione. Entrambi sono cruciali in un settore che costruisce infrastrutture tecnologiche avanzate. Gli investimenti si possono misurare oggettivamente, ma qualità e natura sono più difficili da valutare. L’innovazione, invece, è intrinsecamente soggettiva, influenzata dal contesto culturale degli organismi che la giudicano e, secondo la dottrina economica tradizionale, considerata in crescita in presenza di forte concorrenza.
Secondo le analisi della DG COMP, citate da Tarantino, gli investimenti in telecomunicazioni in Europa non sono diminuiti dal 2017. Al contrario, sono cresciuti grazie al rollout delle reti in fibra e del 5G, con la quota europea sugli investimenti globali rimasta stabile. Questi risultati, non ancora pubblici, contraddicono parzialmente studi indipendenti. In Italia, ad esempio, gli investimenti sono rimasti proporzionalmente costanti rispetto ai ricavi, ma in un contesto di ricavi in calo costante. La questione non è stabilire quali dati siano più affidabili. Il paradosso resta: un settore descritto ovunque come “in crisi,” messo in luce nei rapporti Letta e Draghi come emblema del gap di competitività europeo, non mostra il collasso degli investimenti che ci si potrebbe aspettare. È il barometro a non segnalare la tempesta, o la tempesta stessa ad essere un’illusione?
La risposta sta nella complessità di ciò che si chiede agli indicatori di catturare. I ricavi in calo non si traducono sempre direttamente, né linearmente, in calo degli investimenti. Altre dinamiche possono mascherare la relazione fino al punto di rottura. In questo caso, le dinamiche sono tecnologiche e dipendono da come le regole di mercato influenzano le scelte degli operatori.
L’arrivo del 5G e l’urgenza delle reti FTTH, spinte dall’esplosione del traffico internet, hanno costretto gli operatori a investire pesantemente proprio mentre i ricavi crollavano. Restare indietro sarebbe stato fatale, vista l’immediata percezione degli utenti della qualità dei servizi e la facilità con cui gli utenti possono cambiare operatore. Questi investimenti sono stati fatti, seppure a spese di margini sempre più ridotti. Oggi, quei margini sembrano aver raggiunto un punto critico.
C’è poi un’erosione meno visibile ma altrettanto dannosa: il declino degli investimenti in innovazione. Gli operatori hanno prima smantellato i loro centri R&D, un tempo responsabili di molti servizi che ancora oggi fondano il valore della connettività. Poi hanno progressivamente ridimensionato le divisioni di ingegneria, diventando dipendenti dai vendor tecnologici e meno capaci di generare percorsi autonomi di innovazione.
Per comprendere appieno questa erosione occorre guardare più in alto: la difficoltà a produrre innovazione non è solo una questione di risorse finanziarie, ma è inscritta nel più ampio contesto del mercato europeo e nelle dinamiche della competizione digitale globale.
La prospettiva del Mercato Unico
Uno degli aspetti più sorprendenti della politica antitrust europea riguarda il trattamento delle fusioni nelle telecomunicazioni. Sebbene Bruxelles abbia spesso valutato tali operazioni come questioni di rilievo europeo, il mercato di riferimento per l’analisi è rimasto lo Stato membro. Questa tensione è forse la prova più evidente dell’incompletezza del mercato unico delle telecomunicazioni, una frammentazione che caratterizza il settore dalla fine dei monopoli nazionali e che il rapporto di Enrico Letta ha analizzato in dettaglio come parte di una più ampia diagnosi delle debolezze strutturali dell’economia europea.
I numeri parlano chiaro: nei 27 Stati membri dell’UE operano più di 100 operatori, quasi tutti confinati a mercati nazionali. Negli Stati Uniti e in Cina, invece, vi sono solo tre o quattro grandi player, che competono su territori immensamente più ampi. Gli analisti notano spesso che questa frammentazione è fuori dalla competenza della politica antitrust europea e non è direttamente attribuibile alle decisioni delle autorità.
Formalmente è vero. Ma questa rigida compartimentazione, tra enforcement regolatorio da un lato e strategie di integrazione dall’altro, ha favorito una visione miope e impedito mosse coraggiose per liberare il potenziale competitivo europeo. Dire che fusioni transfrontaliere non incontrerebbero grandi ostacoli da parte delle autorità antitrust serve a poco, se il quadro europeo più ampio non rende davvero vantaggiosa una scala pan-europea. Se, come sottolinea il rapporto Letta, l’obiettivo finale è un mercato unico della connettività, allora la politica della concorrenza deve adattarsi. Significa riconoscere che la conseguenza logica dell’integrazione è l’emergere di pochi operatori pan-europei, sufficientemente grandi da competere a livello globale in innovazione e servizi digitali, ma attivi in un contesto dove la concorrenza interna assicura qualità e prezzi accessibili agli utenti.
Arrivarci, però, non è semplice. La strada sarà lunga e il cambiamento regolatorio, incluse le regole antitrust, deve farne parte. Pretendere di mantenere gli standard attuali di concorrenza nazionale per tutta la fase di integrazione è una rigidità eccessiva, difficilmente sostenibile politicamente.
Non si può neppure negare il rischio di comportamenti opportunistici da parte degli operatori, pronti a sfruttare allentamenti regolatori per vantaggi di breve periodo. L’attuale spinta ad abbandonare pratiche come la “regola dei quattro operatori per paese” è accompagnata da scetticismo sulla capacità dell’Europa di riformare le regole in modo da consentire vere economie di scala pan-europee. Se il processo si fermasse al solo consolidamento nazionale, senza avanzare verso il mercato unico, l’Europa rischierebbe di restare intrappolata in un ciclo di sottoperformance e debolezza digitale.
Eppure, l’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione di Ursula von der Leyen lascia un segnale di ottimismo: fissando al 2028 l’obiettivo di completare il mercato unico in finanza, energia e telecomunicazioni, la Commissione Europea manifesta l’intenzione di evitare mezze misure. La sfida, dunque, non è semplicemente consolidare, ma assicurare che il consolidamento sia un passaggio verso una vera integrazione europea, non un vicolo cieco.
Scenari futuri alternativi
Nell’attuale scenario internazionale complesso e turbolento, l’urgenza di trovare percorsi realistici verso una maggiore integrazione europea e una più solida competitività globale non dovrebbe impedirci, a mio avviso, di esplorare strade alternative, meno legate ai modelli di business che hanno definito a lungo mercati come quello delle telecomunicazioni.
Consolidare il settore e costruire un mercato unico europeo della connettività rappresenterebbe indubbiamente un grande passo avanti rispetto alla situazione attuale. Restituirebbe capacità di investimento e sosterrebbe la trasformazione digitale delle economie del continente. Ma, quanto alla struttura complessiva del modello dei servizi digitali, al cuore del gap di produttività europeo rispetto agli Stati Uniti, come evidenziato dal rapporto Draghi, tale consolidamento non cambierebbe le regole del gioco. Giocheremmo ancora la stessa partita, sullo stesso campo, seppur con una squadra più forte.
Nel confronto tra ecosistemi europeo, statunitense e cinese, gli europei ricordano spesso l’esistenza di aziende come Nokia ed Ericsson, ancora leader globali negli apparati di rete. Ma la vera debolezza sta altrove: nell’assenza di player europei in grado di costruire grandi piattaforme digitali. Gli Stati Uniti contano su Amazon, Meta, Microsoft, Google e Apple; la Cina su Baidu, Tencent, Alibaba e Huawei Cloud. L’Europa, al contrario, appare come una colonia digitale degli Stati Uniti, più di quanto i soli squilibri commerciali nei servizi lascino intendere.
Nel whitepaper RESTART Techno-Economic Vision of the Future of Telecommunications, abbiamo delineato scenari alternativi che allargano la prospettiva dalle telecomunicazioni all’intero ecosistema digitale. Due in particolare spiccano come possibili game-changer, in grado non solo di modificare i giocatori in campo, ma di ridisegnare il campo stesso e riscrivere le regole del gioco.
Il primo è la creazione di un consorzio europeo per cloud e AI, un’iniziativa sul modello Airbus per colmare il vuoto nelle grandi piattaforme digitali. In questa direzione, il progetto EuroStack rappresenta un passo promettente.
Il secondo è un approccio diverso alla consolidazione, che punta alla separazione strutturale tra reti e servizi, consentendo agli ecosistemi di competere secondo regole distinte: da un lato l’infrastruttura, dall’altro i servizi digitali e le piattaforme di rete.
Intendo approfondire entrambe queste prospettive in un prossimo articolo.