L'INTERVISTA

Elettrosmog Lte, Grassi (Wind): “Il 70% dei siti a rischio”

Parla il Direttore Network Development di Wind: “La maggior parte delle strutture non riutilizzabile. Inevitabile una moltiplicazione degli apparati”

Pubblicato il 05 Lug 2012

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«I severi limiti imposti per le emissioni elettromagnetiche in Italia, uniti a un’interpretazione estremamente cautelativa degli stessi, rischiano di rallentare i piani di sviluppo dell’Lte a causa della necessità di realizzare un maggior numero di nuovi impianti». La pensa così Nicola Grassi, Direttore Network Development di Wind, secondo cui le attuali reti in esercizio 2G e 3G costituiscono la base di partenza su cui fare il deployment verso Lte, e tutti gli operatori confidano in un riutilizzo delle infrastrutture di rete di accesso e di componenti degli stessi apparati che costituiscono oggi le stazioni radio base.


Un riutilizzo fortemente a rischio, viste le problematiche legate alla permessistica. “Allo stato, è stimabile l’impossibilità di impiegare il 50%-70% dei siti Gsm e Umts esistenti – dice Grassi -. In questo scenario, il site-sharing tra gli operatori mobili risulterebbe fortemente limitato, perché se è vero che nel 30% dei siti sarebbe possibile collocare un apparato Lte, non è detto che ci sarebbe la possibilità di collocarne due. Quindi, la possibilità di fare “sharing multioperatore” sarà sicuramente inferiore al 30%. Conseguentemente si avrebbe una moltiplicazione delle installazioni con un notevole aggravio dell’impatto ambientale anche a causa di una minore efficienza energetica. Tutto questo si tradurrebbe in una impossibilità di raggiungere gli obiettivi della Digital agenda”.


Nell’ottica di sviluppare reti sempre più cost-effective, la tecnologia radio consente l’integrazione (HW e SW) sugli stessi apparati 2G/3G delle funzionalità Lte. Tuttavia i limiti di esposizione ai campi elettromagnetici attualmente fissati in Italia in applicazione della Raccomandazione 1999/519/EC del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 luglio 1999, pari a 6 v/m, che sono i più bassi rispetto a quelli fissati in applicazione della medesima Raccomandazione da parte di Stati Membri, “implicano notevoli difficoltà nella realizzazione degli adeguamenti delle reti mobili necessari per il lancio dei servizi Lte”, aggiunge Grassi.
L’attuale impianto normativo e le tecniche di valutazione dell’esposizione ai campi elettromagnetici adottate dagli enti di controllo (Asl, Arpa, ecc.) rischiano, secondo il manager di Wind, “di rendere vani gli investimenti sulla rete mobile di prossima generazione, l’Lte (Long Term Evolution), introducendo un divario competitivo dell’intero sistema paese rispetto all’Europa e ai Paesi industrializzati”.


In Italia i limiti di esposizione ai Cem (Campi elettromagnetici) per la popolazione sono stati fissati dal successivo Dpcm 8 luglio 2003. Il Dpcm fissa a 20 v/m i limiti di esposizione nell’intervallo di frequenze da 3 Mhz a 3 Ghz, ma stabilisce per i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità il limite di 6 v/m tra 100 kHz e 300 Ghz “all’interno di edifici adibiti a permanenze non inferiori a quattro ore giornaliere, e loro pertinenze esterne, che siano fruibili come ambienti abitativi quali balconi, terrazzi e cortili esclusi i lastrici solari” nonché “all’aperto nelle aree intensamente frequentate”, quindi “il limite dei 6 v/m in pratica viene applicato in tutte le aree urbane e suburbane – dice Grassi -. Negli altri paesi europei che hanno adottato i limiti dell’Icnirp, compresi tra 42 e 60 v/m, sono state condotte numerose misure del campo elettromagnetico negli ambienti di vita e di lavoro, senza riscontrare valori diversi da quelli misurati in Italia”.


Secondo Wind, un altro problema per il roll out dei network Lte riguarda le interferenze fra le frequenze a 800 Mhz con il segnale del digitale terrestre tv. In Italia è stato aperto dal Mise un tavolo tecnico sul tema, coinvolgendo gli operatori (Tim, Vodafone e Wind) e la Fub (Fondazione Ugo Bordoni) per individuare le soluzioni tecnologiche più efficaci per limitare la problematica, gli interventi normativi e la definizione dei processi implementativi e non ultimo l’attribuzione dei costi. “Il rischio che si prospetta per tutti gli operatori è un ritardo anche significativo nell’utilizzo in Italia dell’800 Mhz – chiude Grassi – in attesa del contesto risolutivo delle problematiche interferenziali”.

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