La banda larga come elemento fondamentale per lo sviluppo e per stimolare la crescita, una roadmap con tempi stringenti per raggiungere gli ambiziosi obiettivi di Europa 2020, la moral suasion verso gli operatori chiamati a investire sulla rete, senza rinunciare ad azioni più incisive se non doteranno l’Italia di un’infrastruttura “vitale per il Paese”, nella prospettiva di un’Italia che recupera i propri gap di innovazione e si lancia con decisione nella rivoluzione digitale. Anche sull’onda della presidenza del Consiglio Ue che da luglio spetterà al nostro Governo. L’agenda del semestre italiano è un cantiere aperto, e sul tema delle Tlc vede impegnato Antonello Giacomelli, sottosegretario al Mise con delega alle Comunicazioni.
Sottosegretario Giacomelli, nel Def 12 pagine sono dedicate al piano banda larga. Quanto è importante nelle strategie del Governo?
Banda larga e ultralarga sono centrali, la nostra ambizione è raggiungere tutti gli obiettivi previsti dall’Agenda Ue 2020. Anche se il ritardo pesa, eccome. Quando Netflix dice che non viene in Italia perché non giudica sufficiente lo sviluppo della rete, non è una bella presentazione.
A confermare l’arretratezza del Paese, non solo nel network, c’è anche il recente scoreboard europeo
Certamente, i gap sono molteplici, e vogliamo intervenire su tutti. Sulla rete stiamo lavorando a una strategia di coordinamento nazionale, per rispondere alle obiezioni che ci ha mosso l’Ue sull’uso dei fondi Fes e Feasr e la loro distribuzione nelle zone a fallimento di mercato.
Cosa cambia rispetto al piano del Governo precedente?
I punti principali su cui l’Europa aveva espresso le sue perplessità hanno trovato risposta. Loro identificavano nel nostro meccanismo l’assenza di un piano nazionale. La visione generale non mancava nemmeno nel periodo precedente, ma ora abbiamo reso più esplicito il ruolo di coordinamento e di regia nazionale e quello di Infratel come fattore unificante delle procedure. La nostra impostazione sarà chiara quando a breve vareremo il Fondo sviluppo e coesione. Stiamo lavorando anche al pieno utilizzo degli strumenti europei esistenti, e sulla possibilità di sfruttare il semestre di presidenza italiana per rafforzarli, in accordo con tutti gli altri Paesi Ue. In collaborazione con le Regioni vogliamo impegnare anche i fondi rurali. Per questo abbiamo in cantiere anche una nuova consultazione con gli operatori.
Che finora non hanno brillato per entusiasmo.
In effetti, abbiamo dovuto prendere atto di un interesse debole in passato da parte loro. Però ora alcuni segnali indicano maggiore disponibilità a investire.
Sembra più ottimista di Caio.
Siamo realisti e non nascondiamo difficoltà e ritardi. La nostra convinzione è che c’è una parte decisiva che oggi spetta al pubblico. Ma ritengo che ciò possa col tempo mettere in moto un processo che si autoalimenterà. Dove è già possibile, vogliamo mettere insieme operatori, enti locali e chi punta a sviluppare servizi: la banda larga può determinare una crescita progressiva di centinaia di piccole aziende legate all’innovazione. La posa della fibra è importante, ma senza servizi perde la sua valenza.
Caio proponeva un “watch dog” per monitorare gli investimenti degli operatori.
Ci abbiamo pensato anche noi. Condivido il concetto, ma ho una visione leggermente diversa. Siamo disponibili e interessati a sviluppare ogni possibile sinergia con gli operatori ma un punto deve essere chiaro: la rete è un’infrastruttura d’interesse generale del Paese. Se questa comprensione si rivelasse insufficiente, eserciteremo la moral suasion necessaria.
La moral suasion prevede anche la “bomba atomica” dello scorporo della rete Telecom?
Abbiamo due obiettivi: il primo è che nessun legittimo interesse particolare può mettere a rischio la centralità di un’infrastruttura vitale per il Paese. Il secondo è che abbiamo a cuore lo sviluppo e la crescita di ogni realtà, di ogni operatore e di ogni azienda. Ma c’è un punto da ricordare a chi fosse eventualmente distratto: si chiama golden power. Non è moral suasion, ma uno strumento previsto dalla legge e che dà a noi la responsabilità di assicurare sempre, quali che siano le condizioni di mercato, che l’interesse generale sia tutelato.
Passiamo al mobile. All’Italia servirebbe un po’ di “dirigismo” sul consolidamento, come in Francia?
La politica deve fissare regole certe e tutelare l’interesse generale, poi il mercato fa la sua parte. Questo tema andrebbe visto in un quadro europeo più che nazionale. Il governo si muove già in una dimensione europea: stiamo verificando se ci sono le condizioni per approvare la direttiva sul digital single market: è il vero obiettivo, lavoriamo per l’uniformità nella concessione delle licenze.
I broadcaster si oppongono alla cessione delle frequenze 700 Mhz alle Tlc.
Mi pare che si tratti di un progetto di razionalizzazione dell’uso di quelle frequenze abbastanza accettato nei Paesi europei. Alla presidenza del Consiglio Ue l’Italia avrà la responsabilità di fare sintesi e arrivare a una soluzione condivisa. Ma un punto è chiaro: la discussione è sulla banda 700 Mhz, e non su quelle contigue. Non si tratta di sfogliare la margherita. Il mondo dei broadcaster, nodo vitale quanto quello della telefonia, è impegnato in una trasformazione difficile, e noi abbiamo a cuore l’idea di uno sviluppo equilibrato.
“Gli operatori investono, gli Ott guadagnano”, si sente spesso dire.
Si sentiva, forse. Ma rispetto anche a poche settimane fa sono emersi rischi nuovi. La Fcc ha segnato recentemente un possibile punto di svolta con la sua posizione sulla net neutrality, spingendo di fatto Ott e Tlc a trovare un’intesa. C’è il problema di cui parla lei, ma vedo anche il rischio che l’accordo tra i maggiori protagonisti del mercato possa precedere le scelte delle istituzioni, che rappresentano l’interesse generale e hanno il dovere di tutelare l’insieme dell’ecosistema, assicurando il pluralismo e lo sviluppo di realtà innovative che oggi magari non sono ancora presenti.