IL FUTURO DI TELECOM ITALIA

Telecom Italia, Sapelli: “Aumento di capitale unica via d’uscita”

L’economista interviene nel dibattito sul futuro della compagnia: “Bisogna aprire a un numero di azionisti più ampio possibile. Solo così la compagnia può rilanciare sugli investimenti”. Ma avverte: “Serve più unità ai vertici del management”

Pubblicato il 16 Set 2014

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“Si apre una partita difficile per Telecom Italia che la compagnia può provare a vincere facendo ricorso a un sostanzioso aumento di capitale”. È l’opinione di Giulio Sapelli, economista e docente alla Statale di Milano nonché uno dei più grandi esperti di Telecom Italia.

Professore perché un aumento di capitale?

Perché è il modo più efficace per far ripartire la società e metterla nelle condizioni di fare quello che dovrebbe fare lo Stato ma non fa: investire sulla banda larga. Ma l’aumento di capitale dovrebbe essere all’anglosassone, ovvero il più diffuso possibile, aperto a un numero ampio di azionisti. Ho l’impressione che se Telecom non di decide a fare questo rischia di morire.

Ma nel caso non ci fossero le condizioni per fare l’aumento di capitale non ci sarebbe nessuna alternativa?

La soluzione, in quel caso, è tutta italiana. E riguarda ovviamente l’accordo con Mediaset con tutte le conseguenze – a livello di regole del mercato e di antitrust – che ne potrebber conseguire.

Non la convince un’eventuale intesa col Biscione?

La soluzione potrebbe andar bene solo nel caso questa non chiudesse il mercato a player stranieri. Ma, invece, ho l’impressione che sarebbe proprio così. Telecom Italia di tutto ha bisogno tranne che essere tagliata fuori dalla competizione internazionale. Comunque, al di là della bontà delle singole soluzioni, al gruppo serve una governance forte e grande unità all’interno del management.

Requisiti che in Telecom non ci sono?

Sul fronte governance, diciamo che la strada verso una public company è ancora tutta da percorrere nonostante le interessanti evoluzioni assembleari di questi ultimi mesi e l’impegno dell’Ad Patuano in questa direzione. Per quanto riguarda l’unità del management il caso Vivendi ha fatto emergere una forte diversità di vedute ai vertici.

In che senso?

Nei giorni di fuoco del caso Vivendi mi è parso che Patuano e il presidente Recchi non avessero la stessa visione sulle strategie da portare avanti. E proprio questa diversità che, forse, ha ostacolato la buona riuscita dell’iniziativa. In questo contestoTelefonica ha fatto il suo gioco con intelligenza e spregiudicatezza, forte anche del fatto che l’accordo con Vivendi e l’uscita da Telco le avrebbero permesso di risolvere più facilmente le questioni antitrust in Brasile.

Il caso Vivendi ha riacceso i riflettori su Tim Brasil o meglio sulla sua possibile cessione. A suo avviso l’asset va venduto?

No, il Brasile per Telecom non è una controllata come un’altra ma un asset industriale vero e proprio. Con la vendita, altro non si farebbe che continuare a dissanguare la compagnia più di quanto già non sia stato fatto in questi 20 anni. Dico di più: non bisogna nemmeno vendere la rete fissa.

Niente scorporo, dunque?

No, niente scorporo. Non solo per motivi economici e industriali che riguardano la capacità di crescita del sistema Paese ma anche per motivi di sicurezza. Faccio una provocazione: con l’Isis alle porte dell’Europa la questione Telecom Italia – e dei suoi asset – dovrebbe essere una questione di cui dovrebbe occuparsi anche la Nato.

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