l’analisi

Una Starlink tutta italiana: la scommessa da 767 milioni del governo Meloni per la rete satellitare nazionale



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Investimento in un’infrastruttura spaziale pubblica per garantire comunicazioni sicure e sovrane, riducendo la dipendenza da operatori esteri. Il progetto punta a rafforzare la sicurezza nazionale e si inserisce nella strategia europea Iris² per l’autonomia tecnologica

Pubblicato il 30 lug 2025

Alessandro Sannini

Private equity investor



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Il governo guidato da Giorgia Meloni ha stanziato 767 milioni di euro per creare una rete satellitare nazionale dedicata alle comunicazioni istituzionali. L’idea portante è di costruire un’infrastruttura spaziale di proprietà dello Stato, riducendo la dipendenza da fornitori privati stranieri come Starlink, il servizio di connettività satellitare di Elon Musk. Il progetto – paragonato da alcuni a una “Starlink italiana” – segna una svolta nella strategia tecnologica del Paese e mira a rafforzare la sovranità digitale e la sicurezza nazionale.

Questa iniziativa nasce dal bisogno di telecomunicazioni sicure e sotto controllo nazionale, specialmente per il governo e le forze armate. In pratica, la rete satellitare di Stato fornirebbe canali riservati e affidabili per collegamenti critici (dalle comunicazioni governative alle missioni militari), senza dover affidare informazioni sensibili a sistemi commerciali esteri. “Non si può affidare la sicurezza nazionale a un monopolista privato”, ha avvertito un esponente dell’opposizione parlando del rischio di dipendere interamente da Starlink. Proprio le polemiche su un possibile contratto da 1,5 miliardi in 5 anni con la SpaceX di Musk – ipotesi valutata per garantire copertura satellitare all’Italia – hanno acceso il dibattito nei mesi scorsi, spingendo il governo a esplorare una strada autonoma. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha chiarito a inizio anno che nessun accordo era stato ancora firmato con Starlink e che l’Italia avrebbe valutato tutte le soluzioni, incluso lo sviluppo di capacità proprietarie. Su questa linea, dunque, si inserisce la decisione di investire in un sistema nazionale.

Dal punto di vista pratico, il piano prevede l’avvio della costruzione di satelliti nazionali per comunicazioni governative. Un documento interno visionato da Milano Finanza rivela che è stata approvata una prima spesa di 223 milioni di euro per l’avanzamento del programma SICRAL 3. SICRAL (Sistema Italiano per Comunicazioni Riservate ed Allarmi) è la serie di satelliti militari italiani: la nuova fase prevede due satelliti di ultima generazione (Sicral 3A e 3B) che garantiranno continuità alle comunicazioni della Difesa. L’intero programma Sicral 3, avviato nel 2020, ha visto lievitare il costo complessivo proprio a 767 milioni (dai 590 inizialmente previsti) a causa di requisiti di sicurezza aggiuntivi dovuti al mutato scenario geopolitico e dei maggiori costi di lancio. In altre parole, quei 767 milioni non sono una cifra casuale: rappresentano l’investimento pubblico necessario per dotare l’Italia di una costellazione di satelliti di Stato sotto il diretto controllo della Difesa, capace di svincolare le nostre comunicazioni strategiche dal supporto (o dai capricci) di operatori esterni. “Altro che Starlink”, verrebbe da dire riprendendo il titolo provocatorio di un’analisi di Milano Finanza: l’Italia vuole costruire la propria rete satellitare sovrana.

Sovranità tecnologica: evitare dipendenze e proteggere i dati

Alla base di questa scelta c’è una visione di sovranità tecnologica a lungo termine. Finora molti Paesi – Italia inclusa – hanno guardato a sistemi come Starlink per colmare rapidamente lacune di connettività sul territorio o per comunicazioni in scenari operativi difficili. Ma affidarsi a un’infrastruttura crittica gestita da un attore privato estero comporta rischi strategici. Lo si è visto chiaramente con la vicenda ucraina: la rete Starlink, fondamentale sul campo, resta pur sempre nelle mani di SpaceX, che può decidere in autonomia dove e come renderla disponibile. Da qui la volontà italiana di “mettere in sicurezza” le proprie comunicazioni spaziali con asset nazionali.

Questa logica rispecchia una più ampia presa di coscienza europea. “Per evitare di dipendere da attori non europei per esigenze strategiche, militari e governative, l’Europa ha deciso di sviluppare una propria costellazione” ha spiegato Jean-Pierre Diris, coordinatore interministeriale francese per IRIS². Analogamente, l’investimento italiano nei propri satelliti rientra nell’obiettivo di tutelare dati sensibili e capacità operative senza dover chiedere il “permesso” a provider stranieri. Una rete controllata dallo Stato offre infatti maggiori garanzie nella gestione delle informazioni riservate, evitando dipendenze da sistemi altrui.

L’entusiasmo per questa strategia è palpabile anche ai vertici europei. “È assolutamente chiaro che IRIS² è indispensabile per l’Europa, dobbiamo dotarci di un programma di connettività sicura, su questo non c’è dubbio”, ha dichiarato Josef Aschbacher, direttore generale dell’Agenzia Spaziale Europea. Parole che sottolineano come la connettività satellitare sicura sia vista ormai come un pilastro irrinunciabile della sovranità europea, al pari del sistema di navigazione Galileo o di altre infrastrutture critiche. In sintesi, l’Italia – con la sua rete nazionale – si sta muovendo in sintonia con questa visione: lo spazio come nuovo terreno di autonomia strategica.

Va detto che la decisione di Roma è anche una risposta diretta alle critiche interne: quando circolò la notizia dei contatti con Musk, le opposizioni accusarono Meloni di voler “svendere” la sicurezza nazionale a Starlink. Ora, quello stesso investimento (peraltro ben superiore: 1,5 miliardi ipotizzati in 5 anni) viene dirottato per costruire in casa la soluzione, con potenziali benefici di filiera. “Quando l’opposizione gridava che Meloni si era piegata a Musk parlando di ‘dipendenza da Starlink’, oggi quei titoli fanno sorridere”, ha scritto polemicamente un parlamentare di maggioranza, rivendicando la svolta. Al di là della dialettica politica, è evidente il messaggio: l’Italia non intende restare vincolata al “monopolio” tecnologico altrui, ma vuole giocare la propria partita nello spazio.

Il quadro europeo: IRIS² e cooperazione sovranazionale

Il progetto italiano si inserisce in un contesto più ampio, quello dell’iniziativa europea IRIS² (Infrastructure for Resilience, Interconnectivity and Security by Satellite). L’Unione Europea ha infatti lanciato il piano IRIS² per dotarsi di una costellazione comune di satelliti per telecomunicazioni sicure, destinate tanto alle pubbliche amministrazioni quanto agli utenti civili. I primi satelliti europei dovrebbero essere lanciati entro il 2025, con l’entrata in operatività tra il 2027 e il 2030. IRIS² sarà una rete multi-orbita (si parla di 264 satelliti in orbita bassa e 18 in orbita media) e rappresenterà l’antagonista europeo ai sistemi commerciali come Starlink, il progetto Kuiper di Amazon e OneWeb. L’UE ha messo sul piatto 6,5 miliardi di euro di fondi pubblici, coinvolgendo un consorzio industriale denominato SpaceRISE che comprende attori di primo piano come Airbus, Thales Alenia Space, SES, Eutelsat e operatori telco (Deutsche Telekom, Orange). Il modello è quello del partenariato pubblico-privato: Bruxelles finanzia una parte consistente dell’infrastruttura, garantendo domanda come “cliente anchor”, e l’industria co-investe apportando il resto dei capitali in cambio della possibilità di sfruttare commercialmente la rete per servizi a mercato.

In questo scenario, la mossa dell’Italia non è un’iniziativa isolata o in conflitto con l’Europa, bensì complementare. Roma punta a costruire una capacità nazionale interna, ma restando nel perimetro di IRIS². Significa che la nostra rete dialogherà e sarà interoperabile con quella europea. In futuro, è plausibile che i satelliti italiani si integrino nel mosaico continentale, magari portando un contributo aggiuntivo o ridondante a IRIS² per esigenze specifiche nazionali. Del resto, l’Europa incoraggia gli Stati membri a sviluppare competenze domestiche purché coerenti con l’architettura comune. “Di fronte alla volontà degli Stati Uniti di stringere l’Europa in una morsa economica, l’UE deve puntare all’autonomia sviluppando strumenti spaziali propri”, ha affermato incisivamente un coordinatore del programma IRIS², evidenziando la dimensione geopolitica della sfida. L’Italia, con la sua scelta, rafforza anche il peso europeo: meno dipendenza collettiva da provider USA o cinesi e maggiore resilienza interna grazie alla somma di capacità nazionali.

Va ricordato infatti che l’alternativa originariamente considerata dall’Italia era di aderire a un accordo con Starlink, soluzione “chiavi in mano” immediata ma estranea al disegno europeo. Abbandonando quella strada in favore di un investimento domestico, il governo Meloni allinea l’Italia alla strategia UE di autonomia spaziale, pur affrontando il costo di uno sviluppo più lungo. In prospettiva, quando IRIS² sarà operativa, l’Italia potrà beneficiare di dual sourcing: usare la rete europea per servizi generali e al contempo avere i propri satelliti per esigenze sensibili o come backup strategico. È un approccio pragmatico che bilancia visione nazionale e cooperazione comunitaria.

La decisione italiana di puntare su satelliti propri va letta anche alla luce della competizione globale nello spazio. Negli ultimi anni si assiste a una corsa senza precedenti al dispiegamento di costellazioni satellitari per telecomunicazioni. SpaceX, con Starlink, ha già lanciato oltre 4.000 satelliti (su 42.000 previsti) e offre connettività a banda larga in ogni angolo del pianeta. Amazon sta per iniziare i lanci del suo progetto Kuiper, che prevede circa 3.200 satelliti. OneWeb (ora in integrazione con Eutelsat) ha messo in orbita centinaia di satelliti per copertura globale. E non c’è solo l’occidente: la Cina è entrata in gioco con un’enorme costellazione chiamata Guowang (che significativamente significa “rete nazionale” in mandarino), il cui dispiegamento è iniziato a fine 2024. Insomma, le grandi potenze vedono nelle reti satellitari un asset strategico paragonabile alle reti 5G o alle autostrade digitali, e stanno investendo di conseguenza.

In questo contesto, l’Europa rischiava di rimanere indietro, ed è per questo che ha accelerato su IRIS². “L’industria spaziale europea deve alzare l’ambizione, altrimenti rischiamo di restare indietro”, ha ammonito Aschbacher in un’intervista recente. Il monito riguarda sia la capacità tecnologica sia la massa critica degli investimenti. Starlink oggi domina il mercato nascente della connettività satellitare non tanto per qualche segreto tecnologico irraggiungibile, quanto per la velocità e l’aggressività con cui è stata messa in campo: migliaia di piccoli satelliti a basso costo, lanciati con cadenza quasi settimanale grazie ai razzi riutilizzabili di SpaceX, hanno creato un vantaggio difficilmente colmabile in breve tempo. Al confronto, i tradizionali costruttori europei (Airbus, Thales) erano abituati a satelliti geostazionari complessi e costosi, prodotti in pochi esemplari. Ora stanno provando a riorganizzarsi – Airbus e ThalesLeonardo hanno perfino ventilato ipotesi di alleanza industriale nel settore satelliti – per competere nell’era delle costellazioni di massa.

La scommessa italiana di investire subito in propri satelliti va dunque vista anche come un impegno a restare nella partita globale. Non si tratta solo di orgoglio nazionale, ma di non essere esclusi da un mercato e da una tecnologia che saranno pervasivi. In prospettiva, chi controllerà le reti satellitari controllerà flussi di dati, comunicazioni militari, servizi Internet delle cose su scala planetaria. L’Italia, con la sua rete di Stato, vuole assicurarsi un posto al tavolo dove si decideranno standard e governance di queste infrastrutture orbitali. È un modo per dire: ci siamo anche noi, con la nostra tecnologia e la nostra visione, e difenderemo i nostri interessi nello spazio così come facciamo sulla Terra.

Naturalmente, la strada non è priva di ostacoli. Starlink è operativo già oggi, mentre i nostri satelliti richiederanno anni per essere costruiti e lanciati. Ci sarà un periodo in cui, in caso di necessità immediata, potremmo comunque dover ricorrere a servizi esterni. Ma la direzione è tracciata. La concorrenza globale funge da stimolo: vedere Musk colonizzare l’orbita bassa o la Cina occupare posizioni orbitali spinge l’Europa e l’Italia a non restare spettatori. “Seguite i soldi”, suggerisce ironicamente l’analista Christopher Baugh riferendosi alla space economy, notando che gli investimenti mondiali nelle comunicazioni satellitari nel 2025 potrebbero superare i 20 miliardi di dollari. Un chiaro segnale di quanto questo settore sia ormai centrale e ricco di opportunità. L’Italia vuole attrarre una parte di questi capitali anche sul proprio progetto, dimostrando che lo spazio non è più solo materia da agenzie spaziali, ma un territorio dove pubblico e privato, stati e investitori globali competono e collaborano.

Sfide tecniche: tempi, innovazione e interoperabilità

Uno dei punti critici del piano è la tempistica. Costruire e rendere operativa una rete satellitare richiede tempo: progettazione, produzione dei satelliti, predisposizione dei centri di controllo a terra, lanci e test. Le stime indicano che l’operatività piena potrebbe arrivare verso fine decennio, in parallelo ad IRIS², tra il 2027 e il 2030. Nel frattempo il governo dovrà gestire le esigenze immediate con le soluzioni disponibili. Questa latenza temporale è un elemento su cui i critici insistono: mentre noi costruiamo, Starlink continuerà ad evolvere. C’è il rischio che al 2030 la tecnologia sia cambiata ancora e i nostri sistemi risultino “nati vecchi”? Alcuni esperti hanno paventato proprio questo scenario per IRIS², definendolo troppo costoso e potenzialmente obsoleto prima ancora di essere completato, rispetto a un Starlink in costante aggiornamento. Per evitarlo, l’Italia dovrà tenere il passo con l’innovazione: assicurarsi che i satelliti che metterà in orbita siano tecnologicamente avanzati (soprattutto in termini di sicurezza informatica, capacità di banda e resilienza) e magari predisposti ad upgrade software in corso d’opera.

Un altro aspetto tecnico cruciale sarà l’interoperabilità: i sistemi italiani dovranno integrarsi con quelli alleati. In ambito NATO, ad esempio, è essenziale che le comunicazioni possano avvenire su reti compatibili e sicure tra partner diversi. L’Italia ha interesse a rendere la propria rete interoperabile con IRIS² e con le piattaforme degli altri Paesi europei, evitando di creare un’isola tecnologica separata. Questo significa adottare standard aperti, interfacce condivise e partecipare ai tavoli tecnici internazionali per allineare requisiti e protocolli. Fortunatamente, essendo il nostro progetto concettualmente allineato a IRIS², si potrà lavorare sin da subito per una co-progettazione in chiave interoperabile. Ad esempio, le frequenze e bande di comunicazione utilizzate dai nuovi satelliti italiani dovranno coordinarsi con quelle europee, così da permettere ai terminali a terra (antenne, ricevitori) di passare da un sistema all’altro se necessario. L’esperienza pregressa aiuta: l’Italia già partecipa a programmi congiunti (come ad esempio il satellite militare Athena-Fidus condiviso con la Francia) e ha sviluppato competenze nel far dialogare asset diversi.

Sul fronte tecnico va citata anche la sfida della cybersecurity. La guerra in Ucraina ha mostrato come anche i satelliti possano essere bersaglio di attacchi informatici o di interferenze elettroniche. I nuovi satelliti nazionali dovranno incorporare misure di sicurezza rafforzate per resistere a jammer, hacking e tentativi di intrusione nei segnali. Da questo punto di vista, l’aumento dei costi del programma Sicral 3 (da 46 a 223 milioni per la fase finale) è dovuto proprio all’aggiornamento dei requisiti di sicurezza in seguito al “mutato scenario geopolitico”, inclusa la protezione dai cyber-attacchi russi. L’attenzione alla resilienza tecnologica dunque c’è, ma dovrà rimanere alta per tutta la durata del progetto.

Infine, non bisogna dimenticare la sfida infrastrutturale a terra: una rete satellitare non è fatta solo di oggetti nello spazio, ma anche di stazioni di controllo, terminali utente, gateway di connessione alla rete Internet terrestre. Sarà necessario investire anche in queste componenti “terrene” e addestrare personale specializzato per gestirle. È un ecosistema complesso, che richiede competenze multidisciplinari (dall’ingegneria aerospaziale alla cybersecurity, dalle telecomunicazioni alla gestione di grandi progetti). L’Italia dovrà assicurarsi di avere (o formare in tempo) le professionalità adeguate per far funzionare al meglio l’intera rete quando sarà pronta.

Continuità politica e governance del progetto

Un’infrastruttura spaziale di questo tipo supera per durata i normali orizzonti politici di una legislatura. È legittimo chiedersi: il progetto sopravvivrà ai cambi di governo? La storia insegna che grandi programmi strategici spesso procedono solo se c’è un ampio consenso bipartisan. Nel caso della rete satellitare nazionale, gli ingredienti per una continuità ci sono: l’idea di non dipendere da Musk e di rafforzare la sovranità tecnologica ha trovato d’accordo anche voci dell’opposizione, sia pur critiche sul metodo. Dopo le iniziali polemiche, infatti, pare delinearsi una certa convergenza sull’obiettivo finale. Nessuna forza politica vuole apparire debole sulla tutela della sicurezza nazionale. Probabilmente, la chiave sarà inserire il progetto in un quadro normativo e di finanziamento di lungo periodo, ad esempio attraverso un programma pluriennale della Difesa approvato dal Parlamento. Se i fondi sono già allocati e i contratti firmati, sarà più difficile per chi verrà dopo smontare tutto. In questo senso, l’approvazione nelle Commissioni Difesa del Parlamento (avvenuta a fine luglio 2025 per la fase esecutiva) è un passo che blinda istituzionalmente l’iniziativa.

C’è poi il tema della governance: chi gestirà, in concreto, la rete satellitare nazionale una volta operativa? L’orientamento attuale è che sia sotto il controllo diretto del Ministero della Difesa – del resto Sicral 3 nasce in ambito militare. Tuttavia, trattandosi di un’infrastruttura che potrà servire anche altre funzioni istituzionali (protezione civile, emergenze, comunicazioni governative civili), è presumibile una governance inter-istituzionale. Un modello possibile è la creazione di una unità ad hoc o di una società veicolo a partecipazione pubblica che gestisca il sistema, magari coinvolgendo anche l’Agenzia Spaziale Italiana e altri attori. Il governo Meloni ha connotato fortemente il progetto come uno strumento di sicurezza nazionale (da qui il controllo Difesa), ma per massimizzarne l’utilità potrebbe in futuro aprirlo a una gestione condivisa con altri dicasteri (Innovazione Tecnologica, Imprese) o con partner europei. L’importante sarà stabilire chiaramente ruoli e responsabilità: chi prende decisioni operative in caso di crisi, chi stabilisce le priorità di utilizzo (ad esempio, quanta banda destinare alla Difesa e quanta eventualmente a servizi civili), come vengono allocati i costi di gestione annuali.

Un aspetto politico da non sottovalutare è anche la percezione dell’opinione pubblica e degli attori economici. Finora il tema è rimasto relativamente di nicchia, ma andrà comunicato bene che questa spesa non è un “capriccio spaziale” bensì un investimento strategico, che potrà avere ricadute positive anche sulla vita quotidiana (ad esempio garantendo connettività d’emergenza durante calamità naturali, quando le reti a terra cedono). Rendere partecipe il “sistema Paese” significa anche coinvolgere le eccellenze accademiche e i centri di ricerca nel progetto, così che la società percepisca la rete satellitare di Stato come un patrimonio nazionale condiviso, non come un affare riservato ai militari. In tal senso, sarebbe auspicabile una certa trasparenza nell’avanzamento dei lavori: think tank e osservatori indipendenti potrebbero contribuire con analisi e consigli, e il Parlamento mantenere un ruolo di vigilanza costruttiva. Una governance aperta e inclusiva rafforzerebbe la legittimazione del progetto nel lungo termine.

Industria nazionale e rischi di concentrazione

Dal punto di vista industriale, la creazione di una rete satellitare nazionale da 767 milioni di euro rappresenta innanzitutto una grande opportunità per il settore aerospaziale italiano. Il grosso di questi fondi finirà nelle casse di aziende come Thales Alenia Space Italia (la joint venture tra Thales e Leonardo che costruisce satelliti) e Telespazio (joint venture Leonardo-Thales specializzata nei servizi satellitari), oltre che in un indotto di piccole e medie imprese ad alta tecnologia. È un impulso notevole: significa posti di lavoro qualificati, sviluppo di nuove competenze, contratti per fornitori di componenti avanzate (dai payload di comunicazione ai sistemi di criptazione). L’Italia vanta già una filiera spaziale di eccellenza – basti pensare che il nostro Paese contribuisce alla costruzione dei moduli della Stazione Spaziale Internazionale e di molti satelliti europei – e questo progetto consoliderà ulteriormente tale posizione.

Allo stesso tempo, occorre vigilare sul rischio di concentrazione industriale. Affidare un intero grande progetto a un unico consorzio può essere efficiente, ma bisogna assicurarsi che vi sia abbastanza competitività e diversificazione. In passato, progetti monopolizzati da pochi fornitori hanno talvolta sofferto di costi elevati o ritardi, per mancanza di pressione competitiva. In questo caso, Leonardo/Thales appaiono inevitabilmente i capofila naturali, data la loro esperienza su Sicral e sulle tecnologie coinvolte. Ma il governo potrebbe incoraggiare la partecipazione di altri attori: ad esempio coinvolgendo start-up innovative nel segmento di terra, o aziende specializzate in software per reti satellitari, in modo da allargare la platea industriale. Inoltre, la collaborazione con partner esteri fidati (come Francia o altri paesi UE) su alcuni componenti potrebbe portare benefici sia in termini di qualità sia di costi condivisi.

Una dinamica interessante è che mentre in Italia si concentra il progetto su pochi grandi player nazionali, a livello europeo il settore sta ragionando su aggregazioni: come riportato, Airbus e Thales Alenia Space hanno discusso di alleare le proprie attività satellitari per competere meglio con SpaceX. Ciò indica che su scala continentale potrebbe avvenire una razionalizzazione dell’industria spaziale. Se questo succederà, il nostro progetto nazionale dovrà adattarsi di conseguenza – per esempio, un domani potremmo trovarci con un unico campione industriale europeo invece di due concorrenti. In ogni caso, per l’industria italiana la priorità è consegnare nei tempi e nei costi previsti. “L’industria [satellitare] è sotto pressione, il numero di satelliti geostazionari ordinati si è dimezzato”, notava Aschbacher qualche mese fa, riferendosi alla crisi del mercato tradizionale. Ciò significa che progetti come il nostro hanno un valore ancora più cruciale: danno lavoro in un momento di transizione, ma proprio per questo vanno gestiti con disciplina. Evitare ritardi è fondamentale, sia per ragioni strategiche (ogni anno di ritardo è un anno in cui restiamo scoperti, o dipendenti da altri) sia per ragioni economiche (sforare il budget metterebbe in cattiva luce l’operazione).

Il governo dovrà quindi esercitare un rigoroso controllo sui contratti: milestone chiari, penali in caso di inadempienze, e monitoraggio costante dei fornitori. D’altra parte, bisogna riconoscere che queste stesse aziende italiane hanno spesso dimostrato capacità notevoli: Thales Alenia Space ha realizzato in passato segmenti chiave di costellazioni come Iridium e Globalstar, Telespazio gestisce satelliti per mezza Europa, Leonardo sviluppa tecnologie spaziali di punta. Se ben coordinate, possono fare squadra e consegnare un prodotto all’altezza. L’auspicio è che il progetto rete di Stato diventi anche un catalizzatore per l’ecosistema new space italiano: ovvero che coinvolga startup, università, PMI, magari aprendo alcuni dati o servizi a usi commerciali in futuro. Così si eviterebbe che resti un’infrastruttura “chiusa”, massimizzando invece l’impatto economico.

Inoltre, con i satelliti come nuova infrastruttura critica nazionale, andranno aggiornati i piani di sicurezza e le esercitazioni: l’industria dovrà lavorare a stretto contatto con le autorità per garantire la protezione fisica e logica del sistema (dall’eventuale minaccia di attacchi antisatellite fino alla resilienza a tempeste solari o guasti). Anche questo fa parte delle sfide industriali: consegnare non solo hardware e software, ma un vero servizio operativo sicuro e affidabile per lo Stato. In definitiva, il successo industriale del progetto si misurerà non solo in termini di fatturato generato, ma nella capacità di delivery: portare nello spazio, nei tempi previsti, i satelliti funzionanti. È una prova di maturità per il settore aerospaziale italiano, chiamato a confermare di poter gestire un programma strategico end-to-end.

Finanziamento innovativo: private equity e “space bond”

Un capitolo di grande interesse riguarda come verrà finanziato questo ambizioso programma e quale potrebbe essere il ruolo dei capitali privati. I 767 milioni stanziati provengono da fondi pubblici (verosimilmente dal Ministero della Difesa, con possibili contributi del fondo per l’innovazione tecnologica). Tuttavia, dato il carattere infrastrutturale del progetto, esistono opportunità per attivare strumenti finanziari innovativi e coinvolgere investitori istituzionali nel medio-lungo termine. In altri settori, dalle autostrade alle reti energetiche fino alle telecomunicazioni terrestri, è prassi consolidata finanziare le infrastrutture tramite bond o project financing, spesso con la partecipazione di fondi di investimento specializzati in infrastrutture. Perché non ipotizzare qualcosa di simile per la rete satellitare?

In effetti, i satelliti per comunicazioni – una volta operativi e sostenuti da contratti di servizio stabili – possono essere considerati una sorta di “asset infrastrutturale” con flussi di cassa prevedibili. Ad esempio, se lo Stato italiano si impegna a utilizzare (e pagare) la capacità di questi satelliti per i prossimi 10-15 anni, quel flusso di pagamenti può sostenere l’emissione di obbligazioni dedicate. Si tratterebbe, in sostanza, di infrastrutture finanziabili sul mercato, trasformando un progetto pubblico in un’opportunità d’investimento per soggetti privati a caccia di rendimenti sicuri. “Le società di internet satellitare sono pronte per gli investimenti dei fondi infrastrutturali. Sembriamo e abbiamo in tutto e per tutto il profilo di un investimento infrastrutturale”, ha dichiarato di recente un dirigente del settore. Questa osservazione coglie un trend: molti fondi di private equity e fondi sovrani stanno iniziando a guardare allo spazio (satelliti, lanciatori, stazioni a terra) come alla prossima frontiera delle infrastrutture, accanto a porti, ferrovie e reti telecom tradizionali. Del resto, operazioni significative sono già avvenute: basti pensare che Apple ha investito 1,1 miliardi di dollari in GlobalStar per assicurarsi servizi satellitari, e grossi finanziatori stanno entrando nel capitale di nuovi operatori spaziali. Insomma, lo spazio attira capitali e l’Italia potrebbe approfittarne.

Come? Una possibilità sarebbe creare una società veicolo per la gestione della rete satellitare (ipotizziamo “SatItalia Spa”), inizialmente controllata dallo Stato, e successivamente aprirne il capitale a investitori istituzionali una volta che l’infrastruttura sia a regime o quasi. Questo permetterebbe di recuperare parte dell’investimento pubblico e di avere risorse fresche per ampliamenti o aggiornamenti della costellazione. Un altro strumento è, come accennato, l’emissione di bond infrastrutturali garantiti dai contratti pubblici: in pratica titoli di debito emessi dall’entità che gestisce i satelliti, con la garanzia delle entrate derivanti dai canoni pagati dallo Stato per l’uso della rete. Questi bond potrebbero avere scadenze lunghe (10-15 anni) e attirare l’interesse di fondi pensione, assicurazioni e altri investitori di lungo periodo, analogamente a quanto avviene per i “mini bond” lanciati da società idriche o energetiche locali per finanziare acquedotti o smart grid.

Certo, stiamo parlando di scenari post realizzazione – è difficile che investitori privati si assumano il rischio tecnologico della fase di sviluppo iniziale. Però, una volta dimostrata la funzionalità dei satelliti e avviato il servizio, l’asset potrebbe essere parzialmente cartolarizzato. L’Unione Europea stessa incoraggia formule di finanziamento misto: non a caso IRIS² è concepito come PPP (public-private partnership), con circa la metà dei costi coperta dall’industria privata in cambio di ritorni commerciali. Anche la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) da qualche anno ha aperto linee di credito per progetti spaziali, riconoscendo il settore come strategico. Dunque l’Italia potrebbe dialogare con la BEI o con la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) per eventuali prestiti agevolati o garanzie.

È importante sottolineare che coinvolgere capitali privati non significa affatto privatizzare la rete satellitare di Stato o cederne il controllo strategico. Si tratterebbe di strutturare in modo intelligente la parte finanziaria, mantenendo saldamente in mano pubblica gli aspetti di governance e sicurezza. Un paragone utile è quello delle reti di telecomunicazione terrestri: lo Stato spesso mantiene quote o golden share, ma utilizza investimenti privati per lo sviluppo. Nel nostro caso, si potrebbe immaginare una golden share pubblica nella società del sistema satellitare, a tutela degli interessi nazionali, mentre quote di minoranza sono aperte a investitori finanziari che apportano risorse. Satelliti come asset class a sé stante, insomma, un’idea che pochi anni fa sarebbe sembrata fantasiosa ma che oggi inizia a concretizzarsi nei desk degli analisti finanziari.

Perché spingersi in questa direzione? Per ampliare l’impatto economico del progetto e liberare risorse pubbliche per altre iniziative. Se la rete satellitare genera valore (in termini di servizi resi allo Stato e potenzialmente anche ad altri clienti, come organizzazioni internazionali o partner minori che potrebbero affittare capacità), quel valore può essere monetizzato. L’ingresso di investitori porterebbe anche disciplina gestionale e focus sui risultati, il che non guasta. Naturalmente, il percorso va calibrato con prudenza: prima di lanciare bond o aprire il capitale, bisogna avere certezza che la rete funzioni e che lo Stato si impegni contrattualmente ad utilizzarla (ad esempio sostituendo gradualmente servizi oggi acquistati da satelliti commerciali con servizi erogati dai propri satelliti). Ma se queste condizioni sono soddisfatte, le porte della finanza si aprono.

In prospettiva, c’è anche un ulteriore scenario da valutare: la commercializzazione parziale dei servizi. IRIS² prevede esplicitamente che una parte della capacità serva anche utenti commerciali e cittadini, non solo governi. L’Italia potrebbe valutare se, una volta coperto il fabbisogno istituzionale, una porzione della capacità della rete nazionale possa essere offerta sul mercato (ad esempio a operatori telecom per copertura in aree remote, o a compagnie di navigazione per collegamenti marittimi). Ciò genererebbe entrate aggiuntive con cui sostenere i costi operativi e magari ripagare i finanziatori privati. Uno schema win-win dove lo Spazio diventa leva di sviluppo economico e non solo voce di spesa pubblica. In altri termini, spostare la narrazione: non più “soldi statali per satelliti” ma “infrastruttura produttiva che attrae investimenti e genera servizi vendibili”. Per un Paese come l’Italia, tradizionalmente forte nel manifatturiero ma meno nell’attrarre capitali sui progetti hi-tech, sarebbe un segnale di maturità importante.

Ritorni economici e istituzionali: uno sguardo al futuro

Quali benefici concreti ci si può attendere, una volta realizzata la rete satellitare di Stato? Il primo ritorno sarà in termini di sicurezza nazionale e autonomia decisionale. In situazioni di crisi – pensiamo a blackout delle reti terrestri, emergenze belliche o catastrofi naturali – l’Italia disporrà di un proprio sistema di comunicazione indipendente, criptato e resiliente. Questo è un assicurazione strategica dal valore difficilmente quantificabile: significa poter coordinare soccorsi o operazioni anche in condizioni estreme, senza temere che qualcuno “stacchi la spina” o intercetti le informazioni. A livello istituzionale, inoltre, l’Italia rafforzerà la propria posizione nei consessi internazionali: essere uno dei Paesi che contribuiscono attivamente all’infrastruttura europea (portando in dote propri satelliti) darà maggiore voce in capitolo nelle scelte future su standard e utilizzi dello spazio. Diventiamo fornitori e non solo clienti di servizi spaziali, e questo aumenterà il nostro peso diplomatico.

Dal punto di vista economico-industriale, come discusso, l’investimento genererà lavoro qualificato e innovazione. Ma c’è di più: le tecnologie sviluppate per la rete satellitare potrebbero avere ricadute civili. Ad esempio, progressi nei sistemi di crittografia quantistica o nelle antenne di nuova generazione potrebbero trovare applicazione nelle reti 6G del futuro. L’indotto scientifico è notevole: università e centri di ricerca italiani coinvolti nella progettazione potranno brevettare soluzioni, formare giovani ingegneri, creare startup spin-off. In poche parole, si alimenta il circolo virtuoso dell’innovazione. Non solo: anche nell’uso dei dati satellitari si apriranno possibilità. Una rete di comunicazione dallo spazio può integrarsi con altri asset (droni, sensori IoT, osservazione della Terra) per offrire servizi integrati. L’Italia sta già sviluppando IRIDE, la costellazione nazionale di osservazione terrestre finanziata dal PNRR: incrociando IRIDE (che fornirà immagini e dati ambientali) con la rete di comunicazione satellitare, potremmo in futuro implementare soluzioni avanzate di gestione del territorio, agricoltura di precisione, monitoraggio ambientale con connettività garantita anche nei luoghi più remoti. Insomma, l’infrastruttura spaziale diventa parte del sistema nervoso digitale del Paese, interconnessa con le altre infrastrutture critiche.

Non vanno dimenticati i ritorni finanziari indiretti. I 767 milioni investiti in gran parte resteranno nell’economia nazionale (pagando stipendi, forniture, imposte sulle imprese coinvolte). Una parte tornerà allo Stato sotto forma di gettito fiscale e contributi. Inoltre, l’operazione migliora la bilancia tecnologica del Paese: meno importazione di servizi esteri (ad esempio canoni a operatori stranieri) e più valore aggiunto creato internamente. Nel lungo periodo, se l’Italia giocasse bene le sue carte, potrebbe persino esportare servizi o know-how legati a questa rete. Pensiamo a nazioni amiche o partner minori che non possono permettersi un’intera costellazione: l’Italia potrebbe offrire capacità della propria (sotto opportuni accordi) oppure consulenza per sviluppare sistemi simili. Diventare leader in un settore emergente come le comunicazioni sicure via satellite può aprire nicchie di mercato internazionale.

Last but not least, c’è un ritorno meno tangibile ma fondamentale: l’ispirazione e l’immagine Paese. Lanciando una rete satellitare di Stato, l’Italia manda ai suoi cittadini – e al mondo – un messaggio di fiducia nelle proprie capacità e di visione a lungo termine. Progetti così ambiziosi hanno un effetto traino su tutta la società, alimentando interesse per le STEM nei giovani, orgoglio nazionale e la consapevolezza che possiamo competere nell’alta tecnologia. Siamo stati tra i primi al mondo a mandare un satellite nello spazio nel 1964, oggi raccogliamo quell’eredità proiettandola nel futuro. In un’epoca in cui si parla spesso di declino, investire nello spazio significa anche investire in speranza e progresso.

Conclusione: un invito a cogliere l’occasione spaziale

In conclusione, la rete satellitare nazionale da 767 milioni di euro è molto più di un progetto tecnologico: è una sfida sistemica che coinvolge sicurezza, economia, politica industriale e visione geopolitica. L’entusiasmo iniziale che accompagna l’annuncio deve ora tradursi in esecuzione efficace e collaborazione diffusa. Il percorso sarà lungo e non privo di ostacoli, ma i potenziali benefici superano di gran lunga i rischi. Come in tutte le imprese ambiziose, serve realismo nell’affrontare i problemi (tecnici, politici, industriali) ma anche la capacità di mantenere alta l’ispirazione.

L’Italia ha l’occasione di diventare pioniera di un nuovo modello: considerare lo spazio non solo come voce di spesa pubblica, ma come leva di sviluppo finanziabile e parte integrante delle proprie infrastrutture strategiche. Il successo di questa iniziativa dipenderà dalla convergenza degli sforzi di tutti: il governo dovrà garantire continuità e buon coordinamento; l’industria dovrà rispettare i tempi e puntare all’eccellenza; la comunità finanziaria potrebbe essere chiamata a fare la sua parte investendo con lungimiranza; il mondo della ricerca e dell’innovazione offrirà supporto in competenze e nuove idee. In una parola, serve il contributo dell’intero sistema Paese.

L’invito, dunque, è a cogliere l’opportunità dello spazio. Altri attori globali corrono veloce, ma l’Italia può ritagliarsi il proprio ruolo di primo piano investendo in ciò che sa fare bene: alta tecnologia, creatività ingegneristica, capacità di visione. Questa rete satellitare può diventare l’emblema di un’Italia che non ha paura di guardare alle stelle per costruire il proprio futuro, coniugando orgoglio nazionale e cooperazione internazionale. Come ha detto un importante CEO europeo del settore, partecipando al programma IRIS²: “Realizziamo l’ambizione di una rete sovrana e sicura per l’autonomia strategica dell’UE in una struttura pubblico-privata che allinea tutti gli interessi”. Allo stesso modo, allineiamo gli interessi di tutti gli attori italiani verso questo obiettivo comune.

La rotta è tracciata: dall’idea alla realizzazione, l’Italia si gioca una partita cruciale. Entusiasmo e concretezza dovranno procedere insieme. Se vinceremo la sfida, non solo avremo nuovi satelliti in cielo, ma avremo dimostrato che il “fattore spazio” può diventare un pilastro della nostra strategia di crescita, sicurezza e prestigio internazionale. Il cielo non è più il limite, ma la prossima frontiera da conquistare insieme. Facciamone tesoro e puntiamo in alto, perché questa è una scommessa che vale la pena vincere.


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