Google non sarà costretta a vendere il suo browser Chrome, né a cedere il suo sistema operativo Android. Lo ha stabilito il giudice federale Amit Mehta, che con una sentenza di 226 pagine ha di fatto respinto l’ordine di riorganizzazione della società, emesso dal Dipartimento di Giustizia con l’obiettivo di arginare il potere di un monopolio considerato illegale dal governo statunitense. Il fatto, emerge dalla sentenza, è che quel monopolio è destinato a scomparire con lo sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale.
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Cosa prevede la sentenza
La sentenza, comunque, non sarà indolore per Google. Sebbene, come detto, non ci sarà alcuno spezzatino, l’azienda dovrà rendere disponibili alcuni dati di ricerca a concorrenti qualificati per promuovere la concorrenza. Le sarà inoltre vietato stipulare o mantenere contratti esclusivi relativi alla distribuzione di servizi come Chrome, Ricerca, Assistente Google e Gemini.
Tutti accordi che forniscono una fonte significativa di entrate per Google e un ampio accesso ai suoi servizi, sebbene la stessa azienda avesse proposto di abbandonare tali contratti pur di evitare la vendita di asset considerati ancora più strategici. Il giudice ha accettato in parte i rimedi proposti da Google, senza arrivare al punto di vietare in toto i contratti multimiliardari che vincolano il motore di ricerca più usato al mondo come predefinito su smartphone, computer e altri dispositivi. Tali accordi, che comportavano entrate per oltre 26 miliardi di dollari all’anno, sono stati uno dei principali problemi che hanno spinto il giudice a concludere che il motore di ricerca di Google fosse di fatto un monopolio, ma ha deciso che vietarli in futuro avrebbe fatto più male che bene.
Consentire la prosecuzione di accordi di questo tipo è, in questo senso, non è solo una vittoria per Google, lo è anche per Apple, che riceve oltre 20 miliardi di dollari all’anno da Google e da altri destinatari dei pagamenti.
Del resto, pure gli investitori sembrano aver interpretato la sentenza come sostanzialmente favorevole al gruppo di Mountain View, dato che il prezzo delle azioni della società madre, Alphabet, è aumentato di oltre il 7% nelle contrattazioni estese.
I commenti a caldo
In una dichiarazione rilasciata ieri, Google ha evidenziato preoccupazioni sulla privacy legate agli accordi. “Il tribunale ha imposto limiti alle modalità di distribuzione dei servizi Google e ci obbligherà a condividere i dati di ricerca con i concorrenti. Siamo preoccupati per l’impatto che questi requisiti avranno sui nostri utenti e sulla loro privacy e stiamo esaminando attentamente la decisione”, si legge nella nota.
Google ha comunque definito la sentenza di Mehta una decisione che “riconosce quanto il settore sia cambiato con l’avvento dell’intelligenza artificiale, che sta offrendo alle persone molti più modi per trovare informazioni”, ha scritto Lee-Anne Mulholland, vicepresidente degli affari normativi del gruppo. “Questo sottolinea ciò che diciamo da quando questo caso è stato archiviato nel 2020: la concorrenza è intensa e le persone possono scegliere facilmente i servizi che desiderano“.
Il Dipartimento di Giustizia spiega invece che la sentenza “riconosce la necessità di misure correttive che aprano il mercato dei servizi di ricerca generici” e “la necessità di impedire a Google di utilizzare per i suoi prodotti GenAI le stesse tattiche anticoncorrenziali che ha utilizzato per monopolizzare il mercato della ricerca”. Il procuratore generale aggiunto Abigail Slater, citato nel documento, ha avvertito che “continueremo a esaminare il parere per valutare le opzioni del Dipartimento e i prossimi passi da compiere per ottenere ulteriori provvedimenti”.
Un punto di svolta per tutta la Silicon Valley
La sentenza è stata seguita attentamente in tutta la Silicon Valley, poiché anche altri importanti colossi della tecnologia stanno combattendo cause antitrust intentate dal governo degli Stati Uniti.
Il processo ha messo sotto esame il core business di Google in un momento in cui è già a rischio di essere soppiantato dai chatbot basati sull’intelligenza artificiale. E arriva mentre l’azienda si sta anche preparando a difendere la gestione della sua attività di pubblicità online dopo che anch’essa è stata dichiarata un monopolio illegale all’inizio di quest’anno.
La sentenza avrà probabilmente ripercussioni sull’intero panorama tecnologico: il settore viene rimodellato dalle innovazioni nell’intelligenza artificiale, inclusi i “motori di risposta” conversazionali, mentre aziende come ChatGPT e Perplexity cercano di sovvertire la posizione di Google, da tempo consolidata, di principale porta d’accesso a Internet.
Le innovazioni e la concorrenza scatenate dall’intelligenza artificiale hanno anche rimodellato l’approccio del giudice ai rimedi nel caso antitrust, risalente a quasi cinque anni fa, avviato dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti durante la prima amministrazione del presidente Donald Trump e portato avanti dall’amministrazione del presidente Joe Biden.
“A differenza del tipico caso in cui il compito del tribunale è risolvere una controversia basata su fatti storici, qui al tribunale viene chiesto di guardare in una sfera di cristallo e guardare al futuro. Non esattamente il forte di un giudice”, ha scritto il giudice Mehta.
Per Meta continua la battaglia sul Dma
Se Google in America tira un sospiro di sollievo, Meta in Europa deve ancora battagliare con le autorità di controllo. “Il 23 aprile abbiamo emesso una sanzione di 200 milioni di dollari contro Meta per violazione del Digital Markets Act. Ora, quali sono i prossimi passi?”, ha detto il portavoce della Commissione europea, Thomas Regnier, riferendosi alla violazione di Meta rispetto al suo modello di pubblicità “Consenso o pagamento”, ritenuto non conforme alle regole del Dma che richiedono agli utenti di avere un’alternativa che faccia minor uso dei dati personali.
Regnier ha spiegato che “Meta ha proposto solo un numero limitato di modifiche alle sue opzioni pubblicitarie disponibili nell’Ue. Questo non è sufficiente. Non è abbastanza. Le discussioni con Meta non procedono. Ma chiaramente in questa fase, come stabilito anche nella decisione di non conformità, le sanzioni periodiche sono ancora sul tavolo. Ora vorrei concludere dicendo una cosa importante: la multa non è il nostro obiettivo. Non è l’obiettivo finale della Commissione. Il nostro obiettivo finale è la conformità da parte di tutte queste piattaforme, quindi continuiamo ad avere uno scambio costruttivo con loro. Cerchiamo tutti di evitare una multa, ma l’impegno deve essere da entrambe le parti. Deve essere costruttivo per il beneficio dei nostri cittadini e delle imprese”, ha concluso Regnier.