STRATEGIE

Cloud a costo zero? Rischia di essere una trappola

Il progressivo abbattimento dei costi ha avuto l’effetto di rendere sempre più simili i servizi. Ora la sfida per i fornitori è quella di garantire maggiore capacità delle prestazioni per differenziarsi sul mercato

Pubblicato il 06 Lug 2015

Antonio Dini

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La grande corsa al cloud, quella che negli ultimi due anni ha abbattuto radicalmente i prezzi delle offerte sia dedicate al mondo consumer che a quello aziendale, non è priva di conseguenze. Adesso i fornitori di servizio mirano a differenziarsi sulla base della posizione dei datacenter e la ricchezza dei servizi di calcolo offerti.

Vediamo cos’è successo. A partire dalla fine del 2013 si è vista una crescita delle offerte cloud i cui costi erano decrescenti. Sempre più. Una vera e propria corsa verso per arrivare a costo zero, dovuta soprattutto alla abbondanza di capacità, alla concorrenza, al costo decrescente della capacità di archiviazione (la “memoria”, che è uno dei singoli fattori di costo più importanti per i fornitori di cloud assieme al consumo energetico) e costo decrescente della potenza di calcolo dei server grazie anche a sofisticate tecniche di virtualizzazione. Con l’arrivo del servizio foto di Google completamente gratuito, senza limiti di storage, possiamo dire che siamo arrivati a toccare il livello più basso: a meno che i fornitori non comincino a pagare gli utenti, più in giù di così non si può andare.

Ma l’abbattimento dei costi della capacità di archiviazione ha portato anche una conseguenza: da due anni a questa parte i servizi sono sempre più simili. Il cloud cioè si stava cominciando a trasformare in una commodity, piuttosto peculiare oltretutto. Perché manchevole di quelle caratteristiche di “apertura” e di “trasportabilità dei dati” che diamo (quasi) per scontato con i servizi aziendali e con anche con molti di quelli per i consumer.

Invece, la indifferenziazione, il basso costo e la difficoltà di estrarre i dati possono creare trappole in cui molti utenti, liberi professionisti e aziende rimangono incastrati.

Adesso una nuova serie di modalità di differenziazione sta prendendo piede sul mercato. La prima è la posizione fisica dei dati, e la possibilità di scegliere “a grana fine” dove farli risiedere sia per le copie operative che per quelle di sicurezza (che è meglio se si trovano in geografie differenti) con l’idea di avere certezza su quale legislazione e quindi quale giudice sia competente sui dati: fattore in cui sapere dove fisicamente si trovano i server su cui sono archiviati è fondamentale.

Secondo fattore di differenziazione, adesso è quello relativo ai servizi. Essendo tutti uguali come velocità e capacità, e a costi sostanzialmente analoghi e sempre più bassi, il tema è diventato quello di quali sono le capacità (cosa si può fare con il servizio), non ultime quelle di gestione del ciclo di vita del dato: come inserirli, come gestirli, come eventualmente migrarli e cancellarli in maniera sicura e definitiva (passaggio questo richiesto da molte normative ad esempio per i documenti aziendali).

Dal punto di vista dei fornitori di servizi, questa è una sfida interessante. Da un lato per la costruzione di servizi (e l’adesione a standard) che ancora non sono completamente definiti. Diciamo che è una spinta interessante e salutare per il mercato. Dall’altra perché mettere un datacenter in un posto piuttosto che in un altro non è indifferente. Ci sono posti con legislazioni più adatte (per il discorso della privacy degli utenti tedeschi, ad esempio, aprire un datacenter in Germania è strategico per chi voglia “giocare” con quel mercato), ma anche fiscali (l’Irlanda offre una serie di facilitazioni e incentivi), tecnologiche (Amsterdam ha creato un hub a Schipol in cui convergono varie dorsali e MIX, punti di scambio con le reti locali) e climatiche (la Danimarca ma anche la Finlandia e la Svezia hanno un clima freddo ma stabile, cosa che favorisce il raffreddamento dei datacenter: più di metà dell’energia impiegata in un centro di calcolo è usata per raffreddare i server) oltre che energetiche (mettere un datanceter in un deserto o in una zona con molte giornate di sole permette di sfruttare impianti solari, rendendolo autonomo da un punto di vista energetico e magari anche “produttivo” con la corrente che viene restituita alla rete).

Come si vede, le variabili sono parecchie e fare la quadra non è semplice. Ma interessante vedere come il mercato e i suoi grandi attori si stiano impegnando per riuscirci. Una conseguenza piacevole della Grande Guerra delle Nuvole.

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