JOB&ICT

Digital transformation. La rincorsa dell’Italia per scalare la classifica

Prima ancora di innovare i prodotti e i servizi, bisogna riconsiderare le proprie competenze interne e promuovere un cambiamento culturale in logica digitale

Pubblicato il 05 Feb 2016

Dario Banfi

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Prima ancora di innovare i prodotti e i servizi, le imprese dell’ICT punteranno entro il 2016 verso la digital transformation, a riconsiderare cioè le proprie competenze interne e a promuovere un cambiamento culturale in logica digitale. Per un Paese a trazione manifatturiera è una notizia di grande interesse, perché rimette al centro la questione delle competenze tecnologiche e il ruolo chiave del capitale umano nei processi d’innovazione. A certificare questa tendenza è l’Osservatorio delle Competenze Digitali 2015, condotto da AICA, Assinform, Assintel e Assinter Italia e promosso dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID).

Tuttavia più che una scelta consapevole appare più come una necessità stringente, visto che nella classifica europea che mappa le digital skills della forza lavoro siamo purtroppo nelle ultime posizioni, appena prima di Grecia e Romania. Secondo Istat, infatti, l’89,2% di imprese fino a 50 addetti ha un livello di digitalizzazione “basso” o “molto basso”. Ma di quali competenze digitali abbiamo bisogno? La risposta dell’Osservatorio è piuttosto complessa e articolata. Sebbene basata su un panel piuttosto ristretto (55 imprese), centra il cuore del problema. Mobile, digitalizzazione di flussi e processi, business analytics, IoT, Cloud computing, evoluzioni Web e pagamenti elettronici stanno rivoluzionando il modo di lavorare, ma i lavoratori sono soltanto parzialmente preparati a questi nuovi compiti.

Per valutare i livelli di competenza digitale è stato utilizzato il framework europeo denominato “e-CF 3.0”, che fotografa cinque aree del sapere tecnologico: quello relativo alla pianificazione del business (plan); realizzazione, design e test di nuovi applicativi (build); supporto operativo ed erogazione dei servizi (run); gestione del personale e dei processi che abilitano il business (enable) e alla gestione dei servizi IT (manage). In nessuna di queste aree il nostro Paese ha la completa autonomia a livello di competenze richieste. La rispondenza per eseguire quanto richiesto nelle cinque aree varia a seconda del contesto: è molto elevata, in media del 73,2%, nelle aziende ICT, ma scende al 67% delle società in house delle Regioni e Province Autonome, arrivando al 48% nelle aziende utenti, per poi scendere al 41% nella P.A. Centrale e al 37% nella P.A. Locale. Non è un caso che la figura del digital media specialist, molto ricercata oggi per traghettare le imprese verso l’economia legata a Internet, sia quasi del tutto sconosciuta nelle realtà più piccole. Project e account manager o consulenti ICT abbondano (sono presenti nell’85% delle imprese) e allo stesso modo sono presenti systems administrator, sviluppatori e specialisti di reti, ma tutta l’area di gestione dell’innovazione, del rischio e dello sviluppo di nuove iniziative sconta una reale carenza di competenze. I profili più difficili da trovare o formare sono gli ICT Security Specialist, Enterprise Architect, Business Analyst e perfino i CIO (Chief Operation Officier) sono nel 75% dei casi a corto di competenze o del tutto assenti in azienda e i vertici dei sistemi IT sono, di conseguenza, spesso guidati da figure con conoscenze di livelli inferiori a quelli richiesti.

I gap di competenze più elevati sono legati in generale all’innovazione, alla progettazione di applicazioni, al marketing digitale e al supporto al cambiamento. Nel 55% dei casi si tratta di carenza sul mercato dei profili richiesti, ma in buona parte (44% dei casi) il gap è dovuto anche al mismatch tra percorsi formativi e necessità d’impresa. E se per il recruiting si punta sempre di più al Web e ai social network, per creare le competenze ci si affida, invece, al training on the job (87% delle aziende) e ai percorsi formativi in azienda (82%). Una debacle per il sistema formativo pubblico di base, ritenuto spesso insufficiente a creare lavoratori realmente preparati. Il budget per creare specialisti è quasi del tutto aziendale, anche se sta crescendo il ricorso ai Fondi interprofessionali. Un’ulteriore complessità deriva dall’errata qualifica con cui ci si autoprofila o si vende la propria competenza: tra profili dichiarati e quelli realmente calcolati esiste uno scostamento significativo per figure chiave come gli sviluppatori, i CIO o gli IT Consultant. Si pensa di avere più conoscenze di quante realmente identificate. Nello specifico le competenze più scarse sono di contract management, forecast development, sustainable development e sales management. Al contrario quasi tutti (96% dei lavoratori) è in grado di assistere gli utenti di un servizio IT, affrontare problemi operativi o fornire documentazione di prodotto. Dove e come creare o cercare le skills mancanti? Ingegneria informatica resta il bacino più adatto in cui pescare esperti IT, a seguire le facoltà di Scienze dell’Informazione, Ingegneria Elettronica e, a sorpresa le facoltà di Scienze della Comunicazione e Filosofia.

I rapporti con le Università sono comunque ancora troppo blandi, soprattutto per le aziende non ICT che impiegano comunque profili informatici. Le disponibilità si limitano a stage e tesi di laurea sperimentali, mentre un vero inserimento nello stile dell’apprendistato professionalizzante è ancora poco utilizzato. Il decreto Buona Scuola ha finalmente smosso le acque nelle scuole secondarie, anche se le aziende ICT che hanno rapporti con queste realtà sono solo il 27%. Il 38% conosce i percorsi ITS e il 24% quelli IFTS. Per un Paese come il nostro, costituito da piccole imprese, potrebbe essere questo un nuovo bacino di competenze più accessibili: l’idea di puntare sui Millennials un buon modo per rinnovare la cultura generale e il gap nel segmento digital.

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