L'IPO

Faceflop, un crollo (semi)annunciato

Dietro il calo in Borsa della società di Zuckerberg valutazioni gonfiate. Ma anche un biz model che convince poco: il settore mobile non è sviluppato e la pubblicità non cresce

Pubblicato il 04 Giu 2012

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Un insuccesso annunciato. Almeno secondo i pochi analisti che hanno sconsigliato l’acquisto del titolo di Facebook nel giorno della quotazione. Ma qual è la reazione di Mark Zuckerberg e dei suoi dopo la debacle finanziaria dei primi giorni? L’acquisizione di Karma, start up californiana con 20 dipendenti per una cifra non rivelata, ma di due ordini di grandezza al di sotto del miliardo di dollari pagato per Instagram.


Un ritorno alla routine delle acquisizioni che serve come spiegazione a contrario. L’alto prezzo di Instagram doveva servire a mettere una toppa al lato debole del modello industriale di Facebook – il settore mobile – dove ha bassi ricavi pubblicitari, e a giustificare il futuro valore dell’azienda acquirente. Invece il titolo non ha retto le aspettative. La soglia dei 38 dollari per azione per l’Ipo era una delle più alte di sempre, fissata con l’obiettivo di raccogliere 16 miliardi sul mercato e portare a circa 104 miliardi il valore della capitalizzazione di mercato di Facebook. Nonostante gli speculatori avessero sperato che Facebook potesse addirittura bruciare la soglia dei 50 dollari già nelle prime ore di contrattazioni, il titolo ha risentito di un eccesso di attese, di dubbi del mercato sulla sostenibilità del modello di business e anche del “tradimento” di uno dei tre underwriter della quotazione, la banca di affari Morgan Stanley. Il collasso del sistema informativo del Nasdaq, partito con più di 40 minuti di ritardo e migliaia di ordini eseguiti troppo tardi (c’è la coda di investitori per farsi rimborsare l’errore), è stata solo la costosa ciliegina sulla torta.
Infine, la vera anomalia. Già nei giorni del roadshow Morgan Stanley ha rivisto le sue stime per il secondo trimestre fiscale dell’anno. L’analista Scott Devitt ha ritoccato verso il basso le previsioni sul fatturato e – cosa mai vista nel settore – ha implicitamente sconsigliato i potenziali investitori dall’acquistare il titolo di Facebook a quel prezzo.
È stato l’inizio del crollo: nella documentazione presentata alla Sec Facebook ha dovuto rivedere le prospettive di guadagno soprattutto a causa della strategia non efficace nel settore mobile e la conseguenza è stata che nei giorni successivi anche JPMorgan Chase e Goldman Sachs hanno rivisto al basso le stime. Nonostante i sottoscrittori abbassassero il prezzo della Ipo a 38 dollari e Facebook stessa annunciasse di aver aumentato del 25% portando il totale delle azioni in vendita poco sopra i 420 milioni di pezzi, la chiusura della prima giornata di quotazione è andata del 10% al di sotto il prezzo di lancio e nei primi tre giorni il titolo ha perso in totale il 18% del valore iniziale, scendendo a 31 dollari.
Quello di Facebook è stato uno sbarco sul mercato con enormi attese, ma con un esito più simile a quello di Groupon che non a quello di Google. Colpa delle scelte strategiche di un’azienda che ha un numero gigantesco di utenti (901 milioni attivi) e il desiderio di continuare a crescere tramite acquisizioni che non solo traghettano tecnologie ma anche piccole quote di mercato.


Purtuttavia, la fonte dei guadagni di Facebook rimane limitata: la pubblicità non cresce, il settore mobile non è abbastanza sviluppato e le regolamentazioni sul trattamento dei dati degli utenti, soprattutto in Europa, stanno diventando un pericolo molto forte per la capacità dell’azienda di monetizzare in altri modi i suoi milioni di nominativi registrati. Il fatturato dell’ultimo anno fiscale chiuso il 31 marzo scorso è arrivato a 4 miliardi di dollari, con utili per 974 milioni. Nel 2012 le stime prevedono una crescita del 37% fino a 5,1 miliardi: cresce sempre ma da tre anni a questa parte sempre meno. Del totale del fatturato, ben 3,71 miliardi di dollari derivano da pubblicità online. Google, per fare un esempio, ha un modello di business più maturo e bilanciato, con un fatturato di 37,9 miliardi di dollari e utili per 11,6 miliardi .
L’ambizione di Facebook è però di essere diversa da Google: vuole giocare un ruolo simile a quello di Microsoft, cioè di piattaforma sulla quale altre aziende possano costruire valore. Non è chiaro tuttavia come possa monetizzare il suo sterminato parco-utenti. Sulla defaillance ha pesato anche la “fatica” del mercato stesso, che ha visto crescere l’attenzione sulle aziende nel settore dei social media, attorno alle quali è nata una cultura di finanziamenti e acquisizioni multi-milionari per le start up. E una lunga serie di quotazioni: nell’ultimo anno sono sbarcate sulla Borsa Usa altre 10 aziende del settore a partire da Linkedin.


Con un marketcap iniziale di 104,8 miliardi di dollari, Facebook è stato proposto con un valore tre volte maggiore quello delle somma delle altre 10 società, e a 80 volte il suo stesso fatturato. La media per l’indice Standard & Poor è di 19 volte. Questa iper-inflazione è stata la premessa del pessimo risultato dell’offerta iniziale. Passata la speculazione e gli incidenti del lancio, il prezzo “naturale” si assesterà su altri livelli.

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