OPEN DATA

La sfida di Piacentini: sugli open data sinergia pubblico-privati

Dal riutilizzo dei dati delle PA possono nascere servizi in grado di trasformare le economie e rompere rendite di posizione. Ma spesso le amministrazioni non hanno risorse per mettere a disposizione informazioni di qualità. Sarà cruciale la collaborazione con le aziende

Pubblicato il 04 Nov 2016

Aura Bertoni e Alfonso Gambardella

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Dati aperti e nuovi servizi

Mastodon-C è un’azienda inglese che crea servizi a valore aggiunto usando open data, spesso pubblici. Nel 2012, per esempio, ha analizzato quelli della sanità inglese per scoprire che, in una classe di farmaci anti-colesterolo, le prescrizioni di quello di marca rispetto al meno costoso generico variavano tra le regioni dal 35 per cento all’8 per cento, senza una spiegazione. Il sistema sanitario ha perciò lanciato una campagna per la prescrizione del generico, con risparmi pubblici stimati di 200 milioni di sterline.

È solo un esempio, ma i dati aperti possono creare servizi (legali, sanitari, educativi e altri ancora) in moltissime aree rilevanti e dar vita a nuove opportunità – come il progetto Landsat della Nasa, che ha messo in rete mappe dettagliate di piccole aree della terra, aumentando, dice uno studio recente, la scoperta di giacimenti auriferi, soprattutto da parte di piccole imprese. Il rapporto della Commissione europea “Open Data Maturity in Europe” 2016 stima che il mercato dei servizi open data crescerà da 55,3 miliardi di euro nel 2016 a 75,7 nel 2020 e il mercato indiretto sarà più di dieci volte superiore.

Il potenziale degli open data va al di là dei numeri sulla crescita. I suoi servizi possono trasformare le nostre economie, anche rompendo qualche rendita di posizione nei mercati.

Investimenti pubblici e privati

La buona notizia è che l’Italia non sta a guardare. Si è appena insediato il commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda digitale e per questo incarico il governo ha scelto Diego Piacentini, senior vice president di Amazon, una figura di indubbia competenza sul tema. Inoltre, lo scorso anno l’Italia ha recepito la direttiva europea 2013/37/UE che sancisce il principio secondo cui ogni dato pubblico accessibile è riutilizzabile, può essere cioè elaborato da soggetti diversi e consentire lo sviluppo di nuove attività e servizi.

Per esprimere il potenziale economico, la riutilizzabilità dei dati deve garantire l’accesso da parte degli operatori in forme tecnicamente flessibili (interoperabilità) e rimuovere le barriere legali e regolamentali al loro uso.

Il dato pubblico, prodotto cioè dalle amministrazioni pubbliche per scopi istituzionali, è già pagato dalle tasse dei cittadini, dunque il suo riuso per altri fini non può essere fonte di guadagno per la Pa. Chi usa questi dati per creare servizi a valore aggiunto può invece fissare prezzi al di sopra del costo marginale perché aggiunge valore alla semplice disponibilità del dato pubblico.

Il vero nodo è dunque quello di individuare i soggetti e di ripartire gli oneri per la creazione di dati effettivamente riutilizzabili, condizione che potrà permettere alla fantasia imprenditoriale di creare nuovi servizi a valore aggiunto. Per essere tali, i dati pubblici devono essere di qualità, corretti e aggiornati, con una ragionevole sicurezza di potervi contare anche in futuro. Non potendo finanziare la riutilizzabilità con prezzi maggiori del costo marginale, le strade intraprese a livello internazionale sono tre.

La prima è che le amministrazioni pubbliche si facciano carico dell’investimento. Ad esempio, in Gran Bretagna, la disponibilità di dati digitali sulla giustizia civile ha stimolato servizi innovativi a valore aggiunto come Amiqus, una app che offre ai consumatori la possibilità di comprendere i propri diritti e, a pagamento, prevedere le condizioni a cui si potrebbe chiudere un contenzioso.

La seconda soluzione è che ci siano alcune imprese che facciano gli investimenti sui dati pubblici per realizzare i propri servizi a valore aggiunto da offrire sul mercato, ma mettendo a disposizione di tutti i dati riutilizzati. Negli Stati Uniti Ravel Law, un’azienda di analisi dati nel settore legale, sta costruendo, attraverso il progetto Free Law, un sistema di catalogazione e interrogazione dei dati giudiziali aperti delle corti statunitensi, che abilita nuovi servizi di informazione giuridica, tra cui il proprio. In Italia, banche dati come Polisweb e JurisWiki consentono ampie consultazioni, ma siamo lontani dai servizi di Amiqus o Ravel Law, in gran parte perché i dati digitali del sistema giudiziario italiano non sono disponibili in forme che facilitano servizi a più alto valore aggiunto.

La terza soluzione è di affidare i dati pubblici, con gli ovvi accorgimenti, a quei ricercatori che siano motivati a renderli riutilizzabili, al costo marginale. Ad esempio, oggi abbiamo la disponibilità di un dataset ready-to-use dei brevetti Usa grazie al lavoro del National Bureau of Economic Research.

Un dato è davvero aperto quando è di qualità. Se in Italia le pubbliche amministrazioni centrali e locali hanno risorse insufficienti per migliorarla, un punto chiave della sfida del nuovo commissario potrebbe essere proprio favorire la collaborazione con soggetti privati che vogliono investire su progetti di riuso?

Tratto dal sito lavoce.info

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