“Rai ferma a Carosello senza un progetto sulle infrastrutture digitali”

Sergio Bellucci, esperto di innovazione, a CorCom: “Finora solo interventi spot sulle nuove tecnologie. Servono reti Cdn pubbliche aperte anche ai privati: Viale Mazzini sarebbe il primo driver di questa spinta all’innovazione”

Pubblicato il 18 Mag 2016

Andrea Frollà

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Di progettualità non si vede nemmeno l’ombra. Anzi, assistiamo a interventi spot lasciando una gestione ottocentesca del canone aspettando… Non so bene cosa, ma si aspetta”. Sergio Bellucci, presidente di Net Left ed esperto di innovazione tecnologica nelle comunicazioni, non usa mezzi termini per spiegare la mancanza di progettualità della Rai rispetto alle sfide future che attendo il Servizio Pubblico. Lui è stato, assieme al professor Antonio Sassano, al vicepresidente di Anitec Marco Hannappel e altri esperti, uno dei partecipanti al tavolo tecnologico della maxi-consultazione pubblica #Cambierai. Le sue parole suonano come un appello ai vertici di Viale Mazzini affinché sul digitale terrestre, sul satellite e soprattutto sulle reti di nuova generazione per l’on demand, la Rai si faccia trovare pronta. Non subendo un momento chiave di transizione, ma ripensando la propria strategia in un’ottica di servizio pubblico garantito dallo Stato e di attore votato al pluralismo e ad una maggiore apertura verso le idee della collettività.

Partiamo dal tema video on demand. In che modo è auspicabile che la Rai affronti lo scenario di convergenza tra reti fisiche e nuove tecnologie che si sta delineando nel mondo radio-tv?

Non solo la Rai, ma tutti i broadcaster presenti eredi delle trasmissioni circolari del Novecento hanno un obbligo di trasformazione che passerà dal protocollo di Rete. Questo passaggio verso una comunicazione punto-punto trasformerà i media, le modalità di consumo e tutto l’ambiente digitale, quindi anche quello radio-televisivo. La durata di questa transizione dipende da fattori politici, industriali e di risorse pay e pubblicitarie che dovranno trovare dei mix sostenibili, oggi difficilmente individuabili. Questa è la sfida che abbiamo di fronte e quindi il ripensamento del Servizio Pubblico deve essere totale. L’offerta pubblica deve ritrovare una motivazione non solo quantitativa, ma anche e soprattutto qualitativa.

Per trasportare i contenuti online bisognerà creare reti ad hoc. Dobbiamo aspettarci un ruolo chiave della Rai?

Uno dei punti chiave riguarda l’infrastruttura. Nonostante le privatizzazioni e la presenza di player internazionali, sui territori se non interviene il pubblico la Rete non si costruisce o lo si fa solo dove il mercato ha un interesse diretto e un ritorno economico immediato. Un Paese non può produrre nuovi ‘Sud digitali’, dove per Sud intendo situazioni di abbandono o comunque di arretratezza. Lo Stato deve garantire un’infrastruttura di livello, sennò l’arretratezza continuerà a persistere. Per quel che riguarda nello specifico i contenuti digitali di nuova generazione, gli utenti ne sono già ubriachi perché l’offerta è ampia, ma le frontiere del 5G e delle nuovi reti comporterà un ulteriore innalzamento qualitativo. Bisognerà però testarli in un nuovo ambiente mediale che nessuno conosce ancora bene.

In che modo?

Servirebbe un dialogo forte tra i vertici della Rai e la collettività per affrontare insieme questo salto. La BBC, quando deve rinnovare la concessione, chiede lumi ai cittadini e a chiunque possa fornirgli spunti di crescita. Non esiste solo il tema della riforma della Rai, o meglio ad essa bisognerebbe accompagnare una logica pluralista e aperta.

La questione infrastrutturale sarà un affaire esclusivo di Rai Way?

Non credo, è una scelta di portata troppo ampia. Vedo che il Governo incentiva la realizzazione di infrastrutture affidando a soggetti che per missione non dovrebbero garantire l’infrastruttura di rete come Enel, sminuendo il valore strategico della rete già esistente. Serve un soggetto attorno al quale costruire un processo di aggregazione e investimento pubblico per realizzare l’infrastruttura di cui abbiamo bisogno. Al Governo manca una strategia e questo si riflette sul Servizio Pubblico che in un periodo di transizione avrebbe bisogno di linee più chiare e definite.

Digitale terrestre e satellite hanno vita breve?

Il digitale terrestre per almeno altri 10 anni avrà un suo perché così come lo avrà il satellite. Credo che a metà del prossimo decennio assisteremo ad un appuntamento internazionale degli organismi che gestiscono la gestione di bande di frequenza internazionale che andranno a ridefinirne completamente l’utilizzo. Come Paese, dovremo arrivare a quel momento senza subire questo progetto e vivendolo attivamente con idee e strategie concrete. Sappiamo che è in discussione la banda 700Mhz e altre lo saranno presto e un processo analogo coinvolgerà anche la tecnologia satellitare. Volendo fare un parallelo tecnologico, è come quando si passò dalla modulazione d’ampiezza a quella di frequenza: per un periodo di tempo hanno viaggiato in parallelo. Ora questo processo sta coinvolgendo le trasmissioni di rete di vecchia generazione e quelle sul protocollo IT, ma presto quest’ultime soppianteranno le prime e noi dovremo farci trovare strategicamente preparati.

All’interno di questo contesto, che ruolo avranno le telco nella strategia della Rai?

Le telco si stanno attrezzando a livello internazionale per fornire contenuti. Si tratta di un trend evidente che pone una questione a chi ha un asset di produzione contenuti, che come prima via ha davanti a sé un accordo con una società di distribuzione, un po’ come sta facendo Mediaset tramite gli accordi con Vivendi: la fornitura del contenuto e la vendita della banda su cui farli viaggiare convergono.

Rispetto alle reti CDN (Content Delivery Network, le reti che trasportano online i contenuti, ndr), se lo Stato fornisse un’infrastruttura pubblica, neutra e trasparente diventerebbe uno degli attori principali della definizione di queste strutture di nuova generazione e produrrebbe un servizio universale per la collettività. Ossia si creerebbe, coinvolgendo anche RaiWay, un polo pubblico che, da un parte, garantisce l’accesso a tutti, e dall’altra, produce contenuti da far viaggiare sulla nuova rete. Questo significherebbe riassegnare un ruolo strategico e propulsivo allo Stato sul futuro digitale dell’intero Paese. E la Rai ne avrebbe solo da guadagnare, visto che sarebbe il primo fruitore di queste nuove reti e un motore importante per farle crescere qualitativamente.

Come andrebbe affrontata questa sfida?

Andrebbe ripensato il canone Rai e le sue modalità di suo utilizzo. Ma di progettualità non si vede nemmeno l’ombra. Anzi, assistiamo a interventi spot lasciando una gestione ottocentesca del canone aspettando. Non so bene cosa, ma si aspetta.

Leggi anche le interviste degli altri partecipanti al tavolo tecnologico:

Antonio Sassano, professore de La Sapienza ed esperto di frequenze -> “Reti, tecnologia e contenuti: ecco le sfide della nuova Rai

Marco Hannappel, vicepresidente di Anitec -> “Una Rai stile Bbc farebbe la fortuna dell’ICT italiano

Mario Frullone, vicedirettore generale Fondazione Ugo Bordoni -> Cdn aperte e standard video: così la Rai sarà padrona del suo futuro”

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