L'INTERVENTO

Sfida digitale al lavoro, ecco perché non dobbiamo avere paura del cambiamento

L’introduzione massiccia di tecnologie sta trasformando il mercato delle professioni. Ma per contrastare le spinte neoluddiste serve il rafforzamento di politiche attive, come indicano già numerosi segnali. L’analisi di Michele Bignami, partner dello studio legale Nctm

Pubblicato il 26 Nov 2018

Michele Bignami

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La digitalizzazione delle imprese, nelle sue varie declinazioni (industria 4.0, internet delle cose, intelligenza artificiale, etc.), costituisce il tema cruciale del mondo del lavoro attuale. Tema che, nell’arco di pochi anni, è passato da materia di studiosi ad argomento operativo quotidiano; da fenomeno riservato a poche realtà tecnologicamente super avanzate, intente a realizzare le fabbriche del futuro, a elemento comune di innovazione dei processi produttivi della maggioranza delle imprese, indipendentemente dal loro livello di dimensione e complessità.

Il fenomeno, che è all’origine di una nuova rivoluzione industriale (da cui trova origine la definizione industria 4.0), ha già iniziato a mutare notevolmente i parametri del mondo del lavoro e le sue dinamiche.

In primo luogo, l’introduzione massiccia di tecnologie digitali sta velocemente cambiando la richiesta di lavoro delle imprese, alla ricerca di lavoratori con elevate capacità di utilizzo delle stesse.

Correlato a detta richiesta si registra il crescente numero di lavoratori per i quali si pone il problema della rapida obsolescenza delle conoscenze; per una vasta porzione dei lavoratori esse non sono facilmente aggiornabili, sia per ragioni anagrafiche sia, e soprattutto, per un insufficiente livello di conoscenze di base. Per costoro si prefigura ineludibile l’uscita dal mondo del lavoro. In termini tecnici si parla di licenziamenti tecnologici, per i quali la scienza giuridica ha avuto modo di elaborare schemi ormai collaudati nella prassi.

Parallelamente, l’introduzione delle nuove tecnologie e di processi automatizzati ha ridotto il numero di lavoratori necessari a presidiare gli stessi. In attesa che le nuove tecnologie creino nuove professioni e nuove richieste, il saldo è negativo.

D’altro canto, a livello meno drammatico ma comunque significativo la digitalizzazione ha creato anche l’esigenza di un continuo cambiamento delle mansioni; esigenza che in Italia si è tradotta nell’abolizione del tradizionale tabù della immodificabilità delle mansioni stesse (se non in senso migliorativo) previsto dalla legge.

Con l’introduzione del jobs act, infatti, è stata introdotta la norma che legittima la modifica in pejus delle mansioni (art. 2103 cod. civ.), per conferire maggiore flessibilità all’organizzazione del lavoro e per salvare posti di lavoro che, vigente la precedente rigida normativa, sarebbero stati paradossalmente soppressi.

Di fronte al pericolo concreto che industria 4.0 significhi la perdita di centinaia di migliaia (a livello europeo si parla di milioni) di posti di lavoro, si sono alimentate varie paure, che hanno portato al vagheggiamento di un’opposizione e di contrasto al fenomeno, in una sorta di riproposizione ideologica e aggiornata di luddismo: da qui la suggestione verso posizioni fortemente critiche, sfocianti in taluni casi in vera e propria negazione, in chiave populista, del progresso scientifico e tecnologico.

In direzione opposta e maggiormente costruttiva si è mossa, invero, parte del sindacato, che, colta l’ineludibilità del processo e la contemporanea possibilità di sfruttarne le potenzialità, si propone di non subirlo ma, anzi, di governarlo verso approdi per esso più accettabili; tra questi il rafforzamento delle politiche attive e di tutte quelle altre azioni che originano dalla consapevolezza che la formazione continua debba diventare il perno ineludibile attorno al quale  ruoterà la futura carriera del lavoratore.

Ricordo, a questo proposito, l’incontro avuto, lo scorso autunno a Copenaghen, con il sindacalista danese Michael Budolfsen (presidente di Uni Europa Finance e di Nordic financial unions e Vice Presidente del Danish Financial Services Union) il quale mi illustrò quanto il (ricco) sindacato dei bancari dedichi gran parte delle proprie risorse all’aggiornamento continuo dei propri iscritti, individuato come l’unico strumento di contrasto alla obsolescenza delle conoscenze, prima fronte dell’uscita dal mercato del lavoro.

In questo senso ho avuto anche personalmente modo di apprezzare come la Fim Cisl, nella persona del suo segretario, Marco Bentivogli, sia una convinta assertrice del fatto che il sindacato deve farsi parte attiva nella diffusione di un atteggiamento propositivo nei confronti della sfida che la digitalizzazione pone ai lavoratori e al sindacato.

E, non a caso, proprio con la predetta organizzazione sindacale abbiamo, insieme al Politecnico di Torino, contribuito a uno studio sociologico dell’impatto di Industria 4.0 nel mondo del lavoro; un’iniziativa che ha dato alla luce anche al libro “Il lavoro che serve” (di Tatiana Mazali e Annalisa Magone, Guerini 2018) e che ha visto, per la prima volta la collaborazione scientifica di realtà tra loro così apparentemente distanti, quali il sindacato e uno studio legale tradizionalmente legato al mondo delle imprese. Segno, questo, della comune consapevolezza della importanza straordinaria del fenomeno; importanza che richiede riposte nuove e fuori dai rigidi schemi tradizionali, che sin qui hanno visto detti soggetti porsi solo in termini di contrapposizione dialettica.

Ed è, altrettanto, significativo che su posizioni analoghe a quelle descritte si stiano ora muovendo anche altre realtà; ho avuto, ad esempio, modo di recente (Congresso Nazionale Agi di Bologna 2018) di ascoltare Maurizio Landini della Fiom Cgil esprimere il convincimento che Industria 4.0 sia un fenomeno di cui il sindacato si debba appropriare in modo costruttivo e propositivo.

Di fronte alla vitale sfida che la digitalizzazione sta ponendo al nostro Paese in termini di mantenimento della competitività dei nostri prodotti e dei nostri servizi e, in ultima analisi, di posti di lavoro, non resta che formulare l’auspicio che detti segnali di maturata consapevolezza e di cooperazione si moltiplichino con maggiore frequenza, nell’interesse comune, dell’impresa e dei lavoratori.

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