Web tax, ci riprova Mucchetti (Pd)

In un emendamento alla legge di stabilità una serie di proposta di tassazione per le società che vendono online dall’estero in Italia. Per evitare che “Google, Amazon e Apple sottraggano imponibile allo Stato italiano”

Pubblicato il 19 Dic 2014

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Rispunta la web tax, stavolta sotto forma di emendamento alla legge di Stabilità presentato dal senatore Massimo Mucchetti (Pd). Se passerà, chi vende online dall’estero beni e servizi in Italia dovrà scegliere tra una tassazione al 26% o l’assimilazione alle imprese nostrane. Lo spiega oggi lo stesso Mucchetti in un’intervista a La Repubblica.

Google, Amazon, Apple incassano miliardi vendendo beni, pubblicità e servizi ma pagano ben poco all’erario grazie alle società off-shore. Sottraggono imponibile – afferma il senatore pidiessino – fatturando da paradisi fiscali beni e servizi dematerializzati ai clienti europei. La società emittente, basata in Irlanda o Lussemburgo, pagherebbe già imposte modestissime. Ma arriva a non pagar nulla perché si carica di royalties da versare a una controllante, anch’essa off-shore, così da pareggiare i ricavi. Questi diritti di sfruttamento di brevetti o marchi sono esentasse se chi incassa finanzia spese in ricerca della casa madre, ovunque nel mondo. È un meccanismo – sottolinea Mucchetti – che Google e Amazon ben conoscono”.

Il senatore ricorda poi che oggi i colossi web possono dire di non fare utili in Italia perché non vi hanno una “stabile organizzazione”. Concetto che è “perno dei trattati Ocse contro la doppia imposizione fiscale”, ma è anche “obsoleto” perché “legato al possesso di fabbriche e uffici quando, nel mondo web, il reddito prende altre forme”.

E proprio su questo concetto ruota l’emendamento. Secondo quanto si legge nella relazione illustrativa all’emendamento, si tratta di una modifica proposta al Testo Unico delle Imposte sul Reddito, che mira a rendere operante in Italia una innovativa versione della stabile organizzazione che tenga conto semplicemente dell’evoluzione della realtà.

Viene, quindi, affermata la presenza di una stabile organizzazione in Italia ogni qualvolta venga esercitata una attività digitale pienamente dematerializzata per un periodo continuativo di almeno sei mesi e con ricavi superiori, complessivamente, a 1 milione. Si affida, peraltro, all’Agenzia delle Entrate la descrizione di cosa si intenda per attività digitale pienamente dematerializzata.

Per le attività minori e per quelle imprese non residenti che non formalizzano l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia, fermo restando che l’amministrazione italiana può sempre accertarne, invece, la presenza – conclude la relazione – viene istituita una ritenuta secca (cioè a titolo di imposta) sui pagamenti ricevuti. Detti pagamenti intervengono, di norma, attraverso l’uso di intermediari finanziari (per lo più i gestori di carte di credito ed altri mezzi di pagamento elettronico) cui è, quindi, fatto obbligo di operare la ritenuta in questione che propone di “obbligare banche e gestori di carte di credito, che eseguono pagamenti verso l’estero per beni e servizi dematerializzati, di trattenere un’imposta del 26% ove i beneficiari non dichiarino la stabile organizzazione in Italia”. In questo modo un pagamento verso Google o Amazon verrebbe automaticamente tassato del 26%. In alternativa si può scegliere di dichiarare la stabile organizzazione in Italia.

Google ad esempio – dice Mucchetti – dovrebbe scegliere se subire un prelievo del 26% sui ricavi pubblicitari italiani, stimati 1 miliardo, o se dichiarare la stabile organizzazione, facendo un bilancio vero con i ricavi qui realizzati e la quota di costi consolidati attribuibile. Così come fanno gli editori italiani. In questo modo pagherebbe parecchio meno dei 260 milioni della web tax, ma certo più degli 1,8 milioni concessi nel 2012”.

A proporre per primo la web tax (o Google Tax) in Italia è stato nel 2013 un gruppo di parlamentari di vari schieramenti, guidati da Francesco Boccia (Pd), presidente della Commissione Bilancio della Camera. Poi però il percorso si è rivelato complesso e ha visto opposte due anime del Pd. Dopo essere stata inserita nella legge di stabilità per il 2014, la proposta – contro la quale si erano schierati i renziani – è stata definitivamente bocciata. All’epoca il governo disse che se ne doveva occupare l’Unione europea, cogliendo l’occasione del semestre italiano di presidenza Ue, che però sta per finire senza aver preso alcuna decisione in materia.

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