REGOLE & INTERNET

Martusciello (Agcom): “Fake news, più responsabilità per Facebook & Co. Ecco come”

All’indomani dell’iniziativa lanciata dalla Ue il Commissario Agcom fotografa a 360 gradi il fenomeno in rete. Il ruolo di news provider delle tech company, i rischi per gli editori, le strategie politiche, regolatorie e di business in atto per garantire l’informazione nell’era digitale

Pubblicato il 31 Ago 2017

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Bene ha fatto la Commissione Ue a lanciare una consultazione pubblica sulle fake news. Un’iniziativa all’interno della quale si inserisce la stessa Agcom che punta a “rafforzare il dialogo con la Commissione e il Parlamento europeo, ma anche con il Consiglio d’Europa”. Perché per arginare il fenomeno non serve istituire “No a “sceriffi del web”, eventualmente affidati a Ong. La strategia dev’essere coordinata a livello comunitario, e multidisciplinare. Una cosa è certa: Facebook e Google non sono distribution network, ma sempre più news provider. E come tali vanno trattati. “Per questo mi pare lecito interrogarsi sulla possibilità di delineare corrispondenti profili di responsabilità per le piattaforme”. Lo dice il commissario Agcom Antonio Martusciello in questa intervista esclusiva a CorCom, che fotografa i rapporti di forza all’interno di un trend che presenta molti lati in ombra. Dal ruolo delle tech company per l’informazione a quello sempre più a rischio degli editori.

Commissario Martusciello, il neo-commissario Ue al Digitale, Mariya Gabriel, ha annunciato una nuova iniziativa sulle fake news: come vede questa operazione?

Ho appreso con favore dell’iniziativa che prevede l’istituzione di una commissione di esperti a livello europeo e l’apertura di una consultazione pubblica sulle fake news. Si tratta di un primo passo verso la consapevolezza che il tema della disinformazione non può essere arginato solo mediante singoli approcci nazionali. Del resto, finora molto diverse sono state le iniziative nei singoli Stati: se Francia e Belgio, ad esempio, hanno proposto soluzioni legislative e regolamentari volte ad assicurare una maggior trasparenza e neutralità nella distribuzione di contenuti attraverso piattaforme digitali che impiegano algoritmi e sistemi di machine learning, in Gran Bretagna, lo scorso gennaio, la House of Commons, invece, ha adottato un approccio esplorativo sul fenomeno, avviando, per iniziativa del Comitato Cultura, Media e Sport, una inquire sul tema delle fake news. In Germania, poi, una severa normativa, ha previsto sanzioni pecuniarie particolarmente elevate verso i gestori di piattaforme in caso di mancata rimozione di contenuti penalmente rilevanti o notizie palesemente false. È evidente che in questo contesto, tenuto conto della transnazionalità del fenomeno, è opportuno un rapido intervento europeo. Sebbene la Commissaria Gabriel abbia precisato che è ancora prematuro parlare di legislazione, auspico che i risultati di questa iniziativa possano costituire una base per determinare previsioni vincolanti a livello sovranazionale. Mediante una disciplina applicabile in modo uniforme in tutti gli Stati europei, si potrebbero superare le criticità dovute alla frammentazione normativa ed evitare pericolose zone d’ombra che rischiano inevitabilmente di ampliare il fenomeno della disinformazione minando i processi democratici.

In effetti il proliferare delle fake news (prevalentemente) sui social sembra un fenomeno di cui si sta perdendo il controllo. È così?

È innegabile che la circolazione di notizie false in Internet e, soprattutto, la condivisione e circolazione indiscriminata sui social media, abbia comportato una capillare propagazione del fenomeno, attribuendogli una rilevanza prima inedita. Ma se da un lato è certo che la Rete ha ampliato il tema e le problematiche, dall’altro non possiamo ritenere che siano il web o i social ad aver creato la disinformazione. Le false notizie risalgono all’origine dei tempi e nel corso dei secoli l’uso manipolatorio delle informazioni ha conosciuto diverse modalità: già nel 1275 a.C., ad esempio, il faraone Ramsete II, pur sconfitto nella battaglia di Qadesh, tra egizi e ittiti, riportò ai suoi sudditi le gesta e il racconto di una grande vittoria. Il web, quindi, costituisce solo un veicolo, seppur particolarmente pervasivo, della disinformazione, e non la causa: una cassa di risonanza – direi – delle notizie false o inattendibili. Il problema, infatti, più che al mezzo di comunicazione, deve essere propriamente ricondotto alle sue caratteristiche. Mi riferisco all’innumerevole quantità di contenuti presenti in Rete e all’overload informativo che ne consegue. Certo, si tratta di un fenomeno del tutto paradossale. La varietà potenzialmente infinita di documenti e materiali reperibili sul web costituisce un aspetto teoricamente positivo per l’utente che ha la possibilità di fruire dei prodotti culturali e di un accesso alle fonti on demand, in qualsiasi luogo e in qualunque momento. Tuttavia, in assenza di principi che possano delineare uno sviluppo armonioso proprio dell’offerta culturale, con l’aumento della disponibilità di notizie, aumenta invece la possibilità che il cittadino riceva solo una determinata tipologia di informazioni, con evidenti ripercussioni sulla formazione dell’opinione pubblica, che diviene frammentaria e dispersa.

A che punto è la strategia europea di contrasto?

Per arginare il fenomeno diversi sono stati gli approcci proposti. Le piattaforme hanno affidato agli utenti-lettori il vaglio sui prodotti informativi non veritieri, con scarsi risultati in termini di efficacia. Sono state, poi, previste misure di proibizione nei confronti dei siti che diffondono notizie non correttamente accertate mediante tecniche di fact-checking. Una pratica che si situa nell’ambito del data journalism e verifica su cifre, numeri e dati riportate in dichiarazioni pubbliche di esponenti politici, tanto in testi e documenti quanto in discorsi ufficiali, la veridicità, correttezza e accuratezza delle notizie diffuse online. Nella lotta alle fake news poi anche le elite culturali sono attivamente scese in campo. La Biblioteca di Harvard, ad esempio, nel tentativo di informare il grande pubblico sui modi per evitare di cader vittima di ‘notizie false’, ha reso disponibile sul proprio sito una guida – ‘Fake News, Misinformation, and Propaganda’ – che ha destato critiche sulle innegabili ripercussioni censorie dovute all’inclusione di un collegamento a una lista di siti ‘sconsigliati’. Uno strumento che rievoca un moderno Index Librorum Prohibitorum. L’antica lista di pubblicazioni ritenute eretiche, bandite dalla Chiesa cattolica, oggi, invece, viene utilizzata come vademecum per indicare centinaia di siti inaffidabili, falsi, ma anche cospirazionistici.

E a livello nazionale?

A livello legislativo, lo scorso 7 febbraio è stato presentato al Senato un disegno di legge, recante “Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica”. La proposta, fondata su un sistema sanzionatorio di matrice penalistica, propone l’introduzione nel codice penale di articoli che prevedono sanzioni pecuniarie e che sconfina in pene detentive se le notizie false diventano mezzo per campagne di odio o minano i processi democratici; altresì prevede una costante attività di monitoraggio in capo ai gestori delle piattaforme informatiche sui contenuti diffusi attraverso le stesse. Ma sappiamo che il monitoraggio è attività complessa, a cui – tra l’altro – i meri intermediari di servizi di connettività sono sottratti in virtù delle prescrizioni della direttiva e-commerce, la quale esclude a carico degli operatori un obbligo generale di sorveglianza.

Dunque soluzione poco praticabile: e quindi?

Quindi è poi notizia recente l’avvio, a livello nazionale, di un tavolo di lavoro con le organizzazioni non governative per stimolare la nascita di un soggetto che, in alleanza con le piattaforme, possa combattere le campagne d’odio online. Del resto, molte fake news sono spesso strumento di propaganda dell’hate speech. Ma pur essendo necessario intervenire con vigore, temo che affidare il ruolo di ‘sceriffi del web’ alle Ong finisca per introdurre un sistema di polizia morale, al cui vertice sono posti organismi, essenzialmente privati, chiamati a esercitare la funzione di giudici della verità. Una lista lunga, quella lasciata trapelare dal Ministro Orlando – sono infatti 51 le Ong individuate – in cui vi sono anche sigle che celano interessi di parte. È evidente che la loro azione potrebbe non essere neutrale, ma ispirata alla tutela di questi interessi, a discapito della libertà di espressione di ciascuno. Affidare, quindi, la valutazione e la moderazione dei contenuti del web a tali soggetti solleva più di un dubbio.

Qual è la strada da prendere?

Personalmente ritengo opportuno preservare l’ambiente virtuale dell’informazione incentivando l’accertamento critico dei testi. Una attività centrale nell’attività giornalistica e già utilizzata anche nel passato più remoto. Aprirsi al confronto e non rinchiudersi nelle false verità delle echo chambers. Ispirarsi alla ricerca della verità, che quale costruzione sociale è basata su una continua comparazione tra idee e fatti. Non a caso, una delle prime prove moderne di metodo critico applicato all’accertamento dei testi è stata la confutazione con cui l’umanista Lorenzo Valla dimostrò la falsità di un documento alto-medievale che riconosceva al papato una serie di privilegi: la cosiddetta “Donazione di Costantino”. Ebbene, per combattere il problema non basta agire solo sul sintomo, ma occorre operare a monte sulle cause del fenomeno.

Lei alla Versiliana ha parlato di responsabilizzazione delle piattaforme digitali alla pari delle testate giornalistiche: è un’operazione possibile? Quali sono gli ostacoli?

Credo che la progressiva evoluzione delle piattaforme digitali non sia più in linea con un regime di sostanziale irresponsabilità di questi intermediari. Facebook, come Google, hanno da tempo manifestato un significativo interesse nel settore dell’informazione. Proprio recentemente, Facebook ha annunciato lo sviluppo di un programma (Facebook Journalism Project) che mira a rafforzare i legami tra questa e il settore giornalistico. Da un lato il progetto rappresenta un passo importante per la piattaforma che, accusata di diffondere la disinformazione, sta tentando di prenderne le distanze, ma dall’altro dimostra l’evoluzione e l’interesse per il settore. A ben vedere anche la funzione Instant Articles, lanciata qualche tempo fa – che, come noto, consente di leggere i contenuti di un articolo direttamente sull’app del social network – ne aveva già svelato l’interesse e consentito di immagazzinare tutte le informazioni sull’esperienza degli utenti. Analoga iniziativa è stata portata avanti da Google con il progetto open source Accelerated Mobile Pages (c.d. AMP), mediante il quale il motore di ricerca ha permesso all’utente di visualizzare nella schermata i contenuti di news sviluppati in modo immediato.

Quali cambiamenti prefigurano queste iniziative?

È evidente che, in tale contesto, diviene anacronistico considerare queste piattaforme ancora come distribution networks, e non più propriamente come news providers, ed è quantomeno opportuno interrogarsi almeno sulla possibilità di delineare profili di responsabilità, tenuto conto delle specifiche tipologiche degli ambienti digitali. La questione è che tali piattaforme non si limitano più a distribuire notizie, ma ora controllano ciò che viene fruito e da quale pubblico, chi viene pagato per l’attenzione ricevuta e persino quali forme e formati giornalistici emergono. Infatti, tramite gli strumenti poc’anzi richiamati, le piattaforme sono in grado di rilevare elementi fondamentali per gli editori tradizionali, come il numero dei lettori, la loro localizzazione geografica e il picco di traffico. I social, quali moderni Giano bifronte, sono da un lato piattaforme che veicolano contenuti, dall’altro intervengono, mediante sofisticati strumenti tecnologici, per fornire pagine informative. Un’attività che nel mondo offline è affidata all’editore o al direttore del giornale che assume la responsabilità circa i contenuti diffusi: se questo sceglie di rendere pubbliche alcune notizie risponderà conseguentemente di esse.

Invece per i social non c’è questo tipo di “accountability”.

Esatto, anche se certo, non possiamo pensare di applicare tout court la responsabilità editoriale prevista per i media tradizionali anche ai new media. Nel modello tradizionale, la responsabilità di un contenuto è facilmente individuabile e riconducibile all’autore o all’editore, il mondo digitale invece ha introdotto una serie di nuovi attori la cui posizione, sotto questo punto di vista, risulta estremamente opaca e sfuggente. Ma a ben vedere, tra l’irresponsabilità e la responsabilità diverse possono essere le sfumature. Come noto, affinché si determini una forma di responsabilità sono richiesti in modo concorrente l’esercizio di un controllo effettivo sulla selezione dei contenuti e sull’organizzazione di questi. L’organizzazione e la selezione dei contenuti mostrati all’utente è attività che, seppur in forme diverse da quelle tradizionali, può essere realizzata anche dalle piattaforme digitali. Queste, attraverso algoritmi e formule matematiche fondate su dati e preferenze degli utenti, determinano a quali notizie o risultati dare risalto, quelle che il direttore o l’editore organizzerebbe nella prima pagina del suo giornale. Sulla questione è intervenuta anche la Corte di giustizia, la quale – nel caso Pirate Bay – ha riconosciuto che l’indicizzazione dei file, ossia il loro inserimento nel database di un motore di ricerca, attribuisce ai gestori dei siti “un ruolo imprescindibile” nella messa a disposizione dei contenuti. La sentenza pare, quindi, corroborare una prospettiva diversa dalla semplice irresponsabilità finora individuata e anche le attività di organizzazione dei contenuti compiute mediante sistemi tecnologici sembrano poter essere equiparate a una selezione di tipo editoriale.

E il controllo effettivo sui contenuti?

Delinearlo solleva maggiori criticità applicative. Sarebbe impensabile pensare a un controllo ex ante tenuto conto della mole di contenuti diffusi in Rete: i flussi informativi non sono certo paragonabili per quantità a quelli di un giornale. Ma credo che una forma differenziata di controllo sia individuabile ex post. Non è un controllo, ad esempio, quello che si realizza quando queste provano giustamente a censurare alcuni tipi di pornografia o di hate speech? Non a caso, a livello nazionale, anche il recente disegno di legge, ha proposto – non senza critiche – di affidare alle piattaforme il monitoraggio dei contenuti. In conclusione, se da un lato tali soggetti svolgono un’attività di organizzazione dei contenuti mediante l’indicizzazione dei file e la messa a disposizione dei contenuti, dall’altro non sembrano così distanti da un’attività di controllo, seppur questa si realizzi ex post. E allora, tenuto conto delle specifiche tipologiche degli ambienti digitali, mi pare lecito interrogarsi sulla possibilità di delineare corrispondenti profili di responsabilità per le piattaforme.

Compito che spetta a quali istituzioni?

Si tratta di una questione particolarmente delicata in considerazione della transnazionalità del fenomeno. Sul piano della governance, infatti, la diffusività a livello planetario di questi mezzi suggerisce di introdurre e/o perfezionare strumenti regolativi di ordine sovranazionale. Anche se ci fosse una regolamentazione statale, ad esempio, ci troveremmo di fronte a una invasione di notizie false che, provenendo da altri Paesi, avrebbero lo stesso effetto. Sarebbe quindi opportuno un intervento normativo che, riconosciuto il mutato ruolo dei social, delinei una disciplina unitaria e omogenea a livello europeo. Allo stato, infatti, la sostanziale irresponsabilità degli intermediari o dei gestori delle piattaforme, prevista dalla direttiva e-commerce – e legata a un contesto tecnologico ormai distante, in cui la fisionomia di questi operatori era certamente diversa – non ne agevola la responsabilizzazione. Secondo la direttiva richiamata, i providers non sono responsabili dei contenuti che trasportano a condizione che siano “indifferenti” alle informazioni caricate da altri e che il loro ruolo sia meramente tecnico, automatico e passivo. È evidente che molte delle piattaforme oggi disponibili hanno impostato i propri business model, non certo sull’estraneità ai contenuti che trasportano, ma su un’accorta organizzazione degli stessi, affinché possano essere facilmente rintracciabili dagli utenti e affiancati da altre informazioni di loro interesse.

In questo contesto, il Garante delle comunicazioni come può intervenire?

Per AGCom, la principale ricaduta del fenomeno interessa direttamente l’obiettività, completezza, lealtà e imparzialità dell’informazione. Come noto, l’Autorità è il soggetto istituzionalmente preposto dal quadro costituzionale e legislativo alla garanzia del pluralismo informativo su tutti i mezzi di informazione. Tuttavia, la frammentarietà delle discipline settoriali applicabili nei confronti di diverse categorie di soggetti che concorrono al fenomeno delle fake news, condiziona la scelta dei rimedi da parte del regolatore. Ne consegue che i poteri di intervento sono destinati a mutare a seconda della qualificazione giuridica dei diversi soggetti che distribuiscono news, articoli giornalistici e programmi e altri contenuti di informazione attraverso la Rete. In altri termini, in assenza di un intervento legislativo organico di riforma in questa materia, l’intervento dell’Autorità rischia, purtroppo, di variare in base al destinatario delle misure (testate online, fornitori di SMAV, intermediari che forniscono servizi di social network o motori di ricerca, ecc.). È chiaro che, in tale contesto, l’Autorità è chiamata a un impegno significativo, al fine di sfruttare le competenze e tutti gli strumenti disponibili per la tutela del pluralismo e della correttezza dell’informazione.

Quali limiti e quali poteri?

A livello legislativo, alcuni interventi hanno inteso rafforzare i poteri dell’Autorità anche con riguardo al settore online. L’inserimento nell’ambito di applicazione del Sistema Integrato delle Comunicazioni dei ricavi derivanti da “pubblicità on line e sulle diverse piattaforme”, operato dal legislatore del 2012, e l’estensione, nel medesimo anno, dell’obbligo di iscrizione al Registro degli Operatori della Comunicazione alle concessionarie di pubblicità “sul web e altre piattaforme digitali fisse o mobili” si collocano in tal senso. Tenuto conto dei limiti dell’attuale quadro normativo vigente e in considerazione dei compiti istituzionalmente affidati all’Autorità, questa si è comunque mossa anche in termini scientifici per indagare – mediante varie indagini conoscitive condotte negli ultimi anni – i meccanismi di funzionamento dei fenomeni diffusi in Rete. Da ultimo, la recente Indagine conoscitiva su Piattaforme digitali e sistema dell’informazione – avviata nel 2016 (delibera n. 309/16/CONS) e ancora in corso – sta analizzando, sotto il versante della domanda – proprio il fenomeno delle fake news. Alla luce della rilevanza che il valore del pluralismo dell’informazione assume per l’Autorità, l’indagine intende, altresì, investigare i nuovi meccanismi di funzionamento del sistema divulgativo derivanti dal sempre maggior impatto delle piattaforme digitali in termini di domanda e offerta di contenuti. Sul fronte del coordinamento istituzionale, l’Autorità si prefigge di rafforzare il dialogo con la Commissione e il Parlamento europeo, ma anche con il Consiglio d’Europa, la cui Assemblea Parlamentare ha recentemente approvato un rapporto – sul tema “Media on line e giornalismo: sfide e responsabilità” – che dedica ampio spazio alla specifica tematica delle fake news. In questo ambito, resta però di fondamentale rilevanza il ruolo che Governo e Parlamento, nell’esercizio delle rispettive funzioni, rivestiranno nel processo europeo di riforma della direttiva SMAV. È importante, infatti, utilizzare le riforme in atto per superare, per quanto possibile, l’attuale frammentazione dei regimi giuridici applicabili alle diverse tipologie di piattaforme che distribuiscono contenuti editoriali e audiovisivi.

Facebook ha presentato (per ora sotto forma di test) un progetto per promuovere abbonamenti ai giornali: che ne pensa?

Come noto, il progetto, che si colloca nell’ambito del più ampio e già richiamato Facebook Journalism Project, intende incrementare gli abbonamenti, senza che la piattaforma trattenga alcun importo per la transazione. Ciò si realizza mediante un paywall che si attiverebbe superata una certa soglia – fissata da ciascuna testata – di articoli al mese. Ebbene, per rispondere alla Sua domanda, non posso negare alcune perplessità sulla concreta efficacia di tale meccanismo. Temo che esso possa costituire solo una strategia di marketing del social per liberarsi dall’etichetta di strumento di disinformazione. Il progetto, almeno per il momento, è sotto forma di test, ossia di esperimento che non necessariamente sarà destinato a essere applicato in modo definitivo e la cui attuazione a pieno regime è legata a risultati non meglio definiti dal social. Parliamo, quindi, di qualcosa che potrebbe non essere destinato a durare nel tempo. Più concretamente, poi, indagando il sistema proposto, non credo che questo sia sufficiente a incentivare l’informazione di qualità, né ad “aiutare” gli editori come Facebook si prefigge di realizzare. È innegabile, infatti, che, a seguito del superamento della soglia di articoli consultabili gratuitamente, sono pochi coloro che procedono alla sottoscrizione dell’abbonamento. Il Reuters Institute, nel Digital News Report 2017, ha rilevato che in Italia solo il 12% del campione analizzato paga per ottenere news online. Se quindi pochi sono i lettori disposti a pagare per ottenere informazione di qualità, mi sembra difficile che ciò possa avvenire per il tramite di una piattaforma che ha fatto della gratuità dei contenuti il suo principale segno distintivo. Anche le modalità di pagamento – non ancora chiare – sollevano qualche dubbio sull’effettivo impegno del social. Posto che Facebook non tratterrà alcuna commissione in caso di sottoscrizione dell’abbonamento, ciò che mi lascia riflettere è che dietro questa azione “generosa” del social si annidi comunque un vantaggio celato. Certo non propriamente monetario, in quanto sull’importo corrisposto per l’abbonamento il social non tratterrà nulla, ma in termini di dati. Pensiamo solo ai dati che deriverebbero dal pagamento effettuato online mediante strumenti elettronici: banalmente a quelli della carta di credito. Non solo. Il sistema fondato sugli algoritmi, che finora ha incoraggiato metriche più quantitative che qualitative mediante il clickbaiting, non sembra essere messo in dubbio dalla piattaforma, che continuerebbe a premiare i volumi di traffico a discapito della qualità e degli intenti, al momento solo dichiarati, di aiutare l’editoria verso la transizione al digitale.

Qual è il vantaggio per Facebook?

Un’ulteriore considerazione riguarda il valore aggiunto che la presenza degli editori può avere per la piattaforma. Di fatto Facebook negli ultimi anni si è posta sempre più come canale di approvvigionamento di informazioni alternativo a quello tradizionale, che, a causa del continuo dilagare delle fake news, rischia però di trasformarsi in un luogo inaffidabile, provocando la disaffezione dei suoi utenti e la fuga degli editori. Già la funzione di Instant Articles, inizialmente accolta con favore nel settore editoriale, si è poi rivelata fallimentare a causa della scarsa redditività che ha indotto testate prestigiose – come Wall Street Journal, New York Times e Forbes – ad abbandonare il social. Il progetto in esame, quindi, tentando nuove possibili fonti di guadagno, piuttosto che incoraggiare gli abbonamenti, potrebbe voler frenare la diaspora delle testate e calmierare i rapporti con il settore. Non dimentichiamo che, Oltreoceano, la News Media Alliance – la quale raccoglie ben due mila editori statunitensi e canadesi – ha sollecitato un intervento del Congresso volto a ridisegnare un impianto antitrust più rispondente alle nuove esigenze del mercato. L’intento è quello di consentire una negoziazione collettiva dei compensi per l’uso dei contenuti senza incorrere in ipotesi di cartelli o accordi anticompetitivi. Disposizioni antiquate, infatti, rischiano di preservare un duopolio Facebook-Google e di ostacolare l’editoria tradizionale nella transizione al digitale. D’altronde, per assicurare il giornalismo di qualità, le organizzazioni che lo finanziano devono poter negoziare con le piattaforme digitali che innegabilmente controllano la distribuzione e l’accesso all’audience nell’era digitale. Occorre ripensare, quindi, a soluzioni di business sostenibili che consentano di arginare i rischi in termini di qualità delle notizie e di relativa contrazione degli investimenti in informazione primaria.

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