IL CASO

Muslim ban, 100 big dell’hi-tech fanno muro contro Trump

Facebook, Apple, Google, Microsoft, Twitter e Uber si rivolgono alla Corte d’appello Usa contro l’ordine esecutivo firmato dal presidente: “Infliggerebbe un danno siglinificativo agli affari amercani, all’innovazione e alla crescita”

Pubblicato il 06 Feb 2017

A.S.

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I big dell’hi-tech statunitense si schierano a sostegno dell’azione legale avviata dallo Stato di Washington contro il “muslim ban” deciso dal presidente Trump, e presentano alla Corte d’appello Usa un documento con ben 97 firme, tra le quali quelle dei vertici di Apple, Facebook, Google, Microsoft, Twitter e Uber. Cinquantatre pagine in tutto, depositate ieri sera, per sottolineare tutte le conseguenze negative che il provvedimento provocherebbe sull’economia statunitense, fino a infliggere “un danno significativo agli affari amercani, all’innovazione e alla crescita che ne consegue“. Questo anche perché gli immigrati, sottolinea il documento, sono “tra i più prominenti imprenditori, politici, artisti e filantropi”.

“L’esperienza e l’energia delle persone che sono venute nel nostro Paese in cerca di una vita migliore per se stessi e per i propri figli, per perseguire il ‘sogno americano’, sono intrecciate nel tessuto sociale, politico ed economico della nostra nazione – si legge nel documento – Gli immigrati e i loro figli hanno fondato oltre 200 delle aziende nella classifica Fortune 500, tra cui Apple, Kraft, Ford, General Electric, AT&T, Google, McDonald’s, Boeing e Disney“.

Tra gli strascichi della decisione di Trump di mettere al bando gli immigrati provenienti da sette Paesi a maggioranza mussulmana (Siria, Iraq, Iran, Yemen, Somalia, Sudan e Libia) si erano registrate nei giorni scorsi anche le dimissioni di Travis Kalanick, ceo di Uber, dall’incarico di consigliere economico della Casa Bianca. “Ho parlato brevemente con il presidente del suo ordine esecutivo sull’immigrazione e delle implicazioni per la nostra società – ha scritto Kalanick in una mail ai dipendenti dopo che era nato il movimento di protesta “delete Uber” che accusava la società di essere vicina alla linea della Casa Bianca – e gli ho fatto sapere che non sono in grado di poter essere parte del suo consiglio economico. Far parte del gruppo non doveva rappresentare un endorsement del presidente o della sua agenda ma, sfortunatamente, è andata esattamente così”.

Prima di formalizzare la loro decisione di opporsi al provvedimento di Trump con la Corte d’Appello, per primi i big della Silicon Valley erano scesi in campo con dichiarazioni critiche verso il presidente: tra gli altri, Big G aveva deciso di richiamare i dipendenti in missione all’estero, mentre Tim Cook aveva sottolineato pubblicamente il fatto che “senza immigrazione Apple non esisterebbe”

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