Arnaboldi: “Consiglieri indipendenti? Si facciano test psico-attitudinali”

Parla il managing partner dello Studio Carnelutti: “In cda competenze e professionalità non bastano se non accompagnate da doti comunicative e forte personalità”

Pubblicato il 04 Mar 2014

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Pubblichiamo una serie di opinioni sul tema della governance di Telecom Italia in questo momento al centro del dibattito fra azionisti, organi sociali, stakeholders.

“Per i consiglieri indipendenti ci vorrebbe un test psico-attitudinale…”. Non è una battuta quella dell’avvocato Luca Arnaboldi, managing partner dello Studio Carnelutti di Milano e professore a contratto alla Liuc di Castellanza, che parla per esperienza diretta. E’ stato membro di numerosi consigli di importanti società come Terna, Save, Esaote, Risanamento e tuttora è amministratore di NH Hotels e nell’Organismo di Vigilanza del Mip, la Scuola di Management del Politecnico di Milano, ed è convinto che nel dibattito aperto attorno alla governance di Telecom si sia insistito giustamente sulle competenze, ma trascurando altre caratteristiche necessarie perché nei consigli di amministrazione si crei equilibrio e soprattutto efficienza e valore a favore dell’azienda.

“Mi pare che sia stato sottovaluto un aspetto centrale della figura degli indipendenti. Si ritiene la selezione e, quindi, l’efficacia dipendano esclusivamente dal curriculum, dalle competenze, dagli incarichi precedenti. Ciò è fuorviante. Quello che farei io è un test psico-attitudinale, in aggiunta al resto….”

Scherza?

Per nulla. Ricordo che quando, appena laureato, partecipai al concorso per fare l’ufficiale di complemento in Guardia di Finanza la prima cosa che fecero fu un test di questo genere: l’attitudine al comando non la impari leggendo i libri. Solo quando venne il mio turno di impartire ordini, capii che l’autorità dipende dal grado, ma l’autorevolezza è tutto un altro film.

Ma cosa c’entra con gli indipendenti. Mica devono comandare

Il ruolo dell’indipendente è anche un ruolo di contrasto. Deve essere un professionista che accompagna il lavoro del capo azienda, lo deve certo sostenere ma in alcuni casi, non rari, deve arginarne la baldanza, la tendenza a imporre le proprie idee, senza tener conto di altri fattori. Per tenere testa a un leader, ci vogliono altri leader. La conoscenza e la competenza sono dei presupposti essenziali, ma possono non bastare, laddove vi sia carenza di personalità e modalità comunicative non appropriate o poco energiche, quando necessario. A maggior ragione quando gli interessi sono diffusi e il cda risponde a diversi stakeholder, questo ruolo è particolarmente delicato. E questa azione di contrasto non è possibile se chi la deve esercitare non ha una forte personalità, non ha capacità di leadership, uguale o contraria a quella del capoazienda. Infatti nel 90% dei casi il cda viene trainato dall’ad, perché si leggono frettolosamente le carte, le cose si capiscono fino a un certo punto e si va avanti per inerzia, normalmente fidandosi esclusivamente dell’istruttoria sui singoli affari condotta dal ceo e dal management…».

Quindi la competenza è necesssaria!

E’ essenziale, non solo necessaria, ma dipende da che cosa si intende con questa parola. Il vero limite di alcuni indipendenti è che sanno un sacco di cose, per lo più teoriche, perché difficilmente hanno svolto un’attività imprenditoriale o gestionale. Io li definisco provocatoriamente gli “indipendenti autistici”: sanno tutto, ma si mettono in un angolo e, se va bene, borbottano. Non sono strutturati per prendere la parola in consiglio, dove scattano dinamiche non molto dissimili da quelle che studiano gli etologi in un branco di animali. Ecco perché ci vorrebbe un test psico-attitudinale.

E chi dovrebbe farlo?

Gli head hunter, per esempio, che si stanno specializzando nella ricerca e selezione di queste figure, per certi versi nuove e particolari: gli indipendenti non possono essere potenziali ad, ma devono avere un profilo, una capacità di leadership che non significa “qui comando io” ma un’abilità specifica nell’esercitare il ruolo attribuito con convinzione ed efficacia, come se fossero ad, tanto è vero che negli Stati Uniti capita di frequente che i consiglieri indipendenti siano ceo o ex-ceo di altre aziende. In Italia non accade quasi mai. Solo da poco si è cominciato a capire che gli indipendenti non possono arrivare da un altro pianeta. Tra l’altro, se non hai capacità dialettica e capacità di sintesi, non puoi fare un buon lavoro.

Avvocato, gli indipendenti servono a tutelare le minoranze?

Non è questa la loro ragion d’essere. Credo che il tema delle minoranze sia stato strumentalizzato da chi è rimasto fuori dalla catena di comando per insufficenza finanziaria. Gli indipendenti, come mi dice l’esperienza, sono un elemento di equilibrio all’interno del cda, a sostegno ovvero a correzione, quando serve, del vertice aziendale.

Telecom sta diventando una public company?

Quello che sta avvenendo è di grande significato. Telecom è un laboratorio con cui confrontarsi: sarà interessante vedere se le esperienze che si stanno facendo lì potranno essere un punto di riferimento per tutto il sistema. Del resto Telecom è una compagnia che ha sempre affrontato con grande attenzione i temi della governance, almeno dagli ultimi 10 anni. Ma public company è solo una parola, un fatto culturale difficilmente trapiantabile nel nostro codesto. Non abbiamo tradizione e non sono sicuro che ne sentiamo il bisogno. La nostra migliore tradizione, se vogliamo rimanere al dato etimologico, è quella delle aziende pubbliche, di Stato, che in Italia sono ormai una parolaccia impronunciabile, ma che invece avrebbero necessità di essere rivisitate, ripensandole completamente o quasi.

E lei consiglierebbe di recuperarle?

Riviste, corrette e ammodernate sì. Ci sono settori in cui lo Stato può dare un supporto e visione a lungo termine impensabile per un privato, come in settori strategici come le infrastrutture e le telecomunicazioni. Penso ad Alitalia, che avrebbe potuto essere una leva decisiva per valorizzare l’oro nero del nostro Paese, il turismo. Ma penso anche a Telecom, che ovviamente non è più solo una compagnia telefonica ma gestisce attività e asset centrali per il Paese, come la banda larga e la rete.

GLI ALTRI CONTRIBUTI AL DIBATTITO

Francesco Maria Aleandri

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Giulio Sapelli

Alberto Toffoletto

Ferdinando Pennarola

Maurizio Dallocchio

Umberto Bertelè

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