L’articolo pubblicato su CorCom del 19 settembre, “Usa ed Europa convergono sul 6 GHz: la banda che ridisegna il futuro del Wi-Fi”, rilancia le richieste delle lobby del Wi-Fi affinché anche la parte alta della banda 6 GHz (6,425–7,125 GHz) venga destinata a uso non licenziato, dopo che già la parte bassa è stata assegnata.
Il problema è che molti degli argomenti a sostegno di questa posizione sono deboli o addirittura fuorvianti. L’effetto è di spostare l’attenzione da quella che è la vera questione: la capacità dell’Europa di restare competitiva rispetto a Stati Uniti e Cina sulle tecnologie del futuro.
Le lobby delle telecomunicazioni, che dovrebbero fare da contrappeso, finora hanno mantenuto un atteggiamento troppo timido, rischiando di lasciare i decisori politici senza una base solida per valutare le opzioni. È quindi importante che esperti indipendenti contribuiscano a fare chiarezza.
Indice degli argomenti
Le tesi delle lobby del Wi-Fi
Si tende a dimenticare che in Europa metà della banda a 6 GHz (circa 500 MHz) è già a disposizione del Wi-Fi, con le versioni 6E e 7 che possono operare su un’ampiezza di spettro enorme se confrontata con le reti 5G degli operatori mobili, che lavorano in media su soli 80 MHz. La decisione ora riguarda se riservare almeno parte della banda superiore alle reti mobili o consentire un uso condiviso.
Un primo argomento ricorrente è che i 6 GHz sarebbero inadatti al 5G, soprattutto per l’uplink. Questo è sostanzialemente falso: recenti studi sperimentali condotti dal mio gruppo di ricerca (https://ieeexplore.ieee.org/abstract/document/11078909) hanno dimostrato che le prestazioni dipendono dalle configurazioni di rete, non da limiti intrinseci della banda. Se il Wi-Fi offre maggiore flessibilità nella ripartizione uplink/downlink, lo fa però con una efficienza spettrale molto più bassa e una gestione dell’interferenza poco efficace.
Un secondo argomento riguarda la copertura indoor. Si sostiene che il Wi-Fi sia più adatto dedelle reti mobili, ma questa è un’assunzione fuorviante: una buona copertura indoor richiede infrastrutture dedicate, indipendentemente dalla tecnologia. Il nodo vero è chi sostiene gli investimenti. Ci sono segnali positivi su investimenti nel mercato delle coperture mobili indoor in Italia e in Europa: vanno sostenuti.
Infine, c’è un “non detto”: allocare vaste porzioni di spettro a uso libero è una scelta sostenibile solo in contesti in cui esiste già una rete pubblica capillare ed efficiente. In Europa non è così, mentre Stati Uniti e Cina sono messi meglio. Copiare semplicemente le scelte della Fcc americana non appare consiglibile.
Il legame con il 6G
La questione sarebbe meno critica se non si intersecasse con il dibattito sul 6G. Le decisioni cruciali verranno prese al World Radiocommunication Congress del 2027, ma già nei prossimi mesi l’Europa definirà le sue posizioni preliminari.
Le bande in discussione per il 6G sono soprattutto quelle “upper mid-band” dette FR3 (7,125–24,25 GHz, includendo in alcuni scenari anche i 6 GHz) e le frequenze tra 4,4–4,8 GHz. Tuttavia, molte di queste porzioni in Europa sono già occupate da usi militari o governativi, in particolare Nato. Con l’attuale scenario geopolitico, pensare di ridurre questi usi in Europa appare poco realistico, mentre in altre aree saranno utilizzabili.
In questo quadro, la parte alta della banda 6 GHz (6,425–7,125 GHz) rappresenta forse l’unica vera opportunità europea per garantire al 6G lo spettro necessario.
Si può discutere se abbia senso pensare al 6G in un contesto in cui facciamo fatica a fare gli investimenti per il 5G. Ma tra qualche anno Stati Uniti e Cina avranno sicuramente creato le condizioni per un salto tecnologico della infrastruttura di telecomunicazioni e avranno gli strumenti per garantire gli investimenti, mentre in Europa rischiamo di rimanere ancora una volta indietro.
Il rischio di perdere la visione d’insieme
Il gruppo europeo Rpsg (Radio Spectrum Policy Group), che deve elaborare la strategia da proporre alla Commissione, non ha ancora una posizione unitaria. La discussione rischia di perdersi in dettagli tecnici (come le previsioni di traffico dati o le difficoltà degli operatori a investire) invece di guardare all’impatto strategico di lungo periodo.
È vero che gli operatori sono prudenti, scottati da aste 5G costose in anni di calo dei ricavi. Ma le politiche pubbliche non possono limitarsi a seguire le priorità di breve periodo del mercato: l’Europa deve dotarsi di una strategia di lungo respiro, capace di garantire la competitività tecnologica e industriale.
Una possibile via da seguire
Il nodo principale resta la frammentazione europea: regole, calendari d’asta e criteri di assegnazione diversi da Paese a Paese rendono difficile sviluppare un mercato unico delle telecomunicazioni, come ha sottolineato il rapporto Letta.
È tempo che l’Unione Europea adotti una politica centralizzata per lo spettro, con regole armonizzate e tempistiche prevedibili. Nel recente discorso sullo stato dell’unione, la presidente Ursula Von der Leyen ha per la prima volta messo una scadenza, il 2028, per il completamemto del mercato unico in tre settori critici tra cui le telecomunicazioni. Lo spettro rappresenta un tassello importante e l’obiettivo posto è immediatamente precedente alla standardizzazione del 6G prevista intorno al 2030.
Le bande 3,8–4,2 GHz (già identificate per reti locali private) e la parte alta dei 6 GHz rappresentano un’occasione da cogliere subito per costruire una strategia comune.
In gioco non c’è solo una scelta tecnica, ma la possibilità per l’Europa di colmare il divario con Stati Uniti e Cina e di rafforzare la propria competitività digitale nei prossimi decenni.