Call center, Boggio: “Digitale sfida epocale, ma serve fare industria”

La ricetta del presidente di Assocontact contro la crisi del settore: “Regole certe che facilitino gli investimenti e permettano di investire in capitale umano. Serve confronto con il governo”

Pubblicato il 17 Mag 2016

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“Riconversione, digitalizzazione e delocalizzazioni”. Sono queste le tre grandi sfide che il settore dei call center si trova ad affrontare, come evidenzia Roberto Boggio, presidente di Assocontact.

Boggio cosa sta succedendo?

I call center hanno bisogno di riconvertirsi. La principale industry di riferimento, ovvero le Tlc, sta rallentando la sua crescita. In questo contesto è necessario spostare la sovraccapacità produttiva verso comparti diversi come il finance, le assicurazioni o la pubblica amministrazione.

A questo si affianca anche la sfida tecnologica che, in un settore labour-focused, come quello dei call center rischia di essere una bomba. Che fare?

L’automazione e la digitalizzazione sono grandi opportunità, ma allo stesso tempo possono contribuire a diminuire anche i volumi perché portano, quasi naturalmente, gli utenti ad utilizzare alternative alla tradizionale telefonata: penso al web, alle app oppure al ricorso agli operatori “sintetici”.

Gli operatori di call center sono destinati a scomparire?

No, sono destinati a diventare sempre più specializzati: dovranno infatti sapere gestire telefonate e richieste complesse – per quelle “semplici”, in prospettiva ci sarà l’operatore sintetico – nonché servizi a valore aggiunto come, ad esempio, la customer care via social ad app.

Ma questo non aggraverà ancora di più la crisi?

No perché, se è vero che il numero di chiamate diminuirà, aumenterà di contro il tempo della transazione stessa. Se oggi una telefonata dura tra i 3 e 5 minuti, in futuro durerà tra i 6 e gli 8 minuti. A questa crescita si affiancherà la gestione dei nuovi servizi appena citati.

Il settore è pronto a raccogliere la sfida?

Non si tratta di raccoglierla, si tratta di vincerla. Ma le azienda da sole non ce la possono fare.

Cosa serve?

È necessaria una politica industriale seria che metta al centro le competenze, che contribuisca a immettere nel mercato del lavoro operatori sempre più specializzati. Che si basi su regole certe e in grado di favorire gli investimenti. Di questo dobbiamo parlare con il governo.

Detta così sembra facile. Ma le aziende hanno le risorse per investire in capitale umano?

La risposta sta nelle sostenibilità del modello dei contact center. Ovvero se sia ancora efficace un modello basato sul costo unitario della chiamata piuttosto che sulla qualità del servizio.

Non lo è….

Certamente no. Ma finché gli uffici acquisti delle società committenti saranno valutati dal loro top management in base all’abbattimento del costo unitario – e non su quello del costo del processo e sulla qualità delle prestazione – sarà difficile cambiare marcia.

Ma c’è un modo?

Come ho detto prima: serve fare politica industriale. Si devono mettere in campo regole certe per accompagnare la trasformazione del settore, per permettere alla committenza di virare sulla qualità e alle aziende di call center di rilanciare sulle competenze. In un contesto così disegnato anche uno dei fenomeni più dilaganti, ovvero la delocalizzazione, potrà essere arginato.

Crede che l’approvazione della clausola sociale vada nella giusta direzione?

È certamente una norma che dà stabilità a un settore che con i cambi continui di commesse e appalti rischia la schizofrenia. È un pezzo importante di uan strategia industriale che deve tutelare l’azienda che subentra, garantendo autonomia imprenditoriale nel rispetto del mercato, e i lavoratori, che non devono più essere – come spesso è capitato – carne da macello.

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