“Riteniamo che l’attuale struttura non sia quella ottimale, quindi continuiamo a lavorare affinché si raggiunga una struttura industriale della rete che sia migliore e più efficiente per tutti”. Le parole di Dario Scannapieco, amministratore delegato di Cassa Depositi e Prestiti, fotografano con chiarezza lo stato dell’arte del progetto di rete unica: un cantiere aperto da anni, che continua a oscillare tra annunci e smentite, senza mai compiere il passo decisivo verso la fusione delle infrastrutture di Open Fiber e Fibercop.
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Un rebus politico e istituzionale
Sul dossier pesa innanzitutto la complessità della governance. Cdp, controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, è azionista di maggioranza di Open Fiber (60% tramite Cdp Equity) e al tempo stesso indirettamente presente in Fibercop (16%). In teoria, una posizione ideale per facilitare il consolidamento. In pratica, invece, la pluralità di interessi in gioco – Tim, Kkr, governo, autorità regolatorie – ha reso ogni passo lento e faticoso.
La questione è soprattutto politica. L’esecutivo deve bilanciare l’esigenza di dotare il Paese di un’infrastruttura strategica con l’obiettivo di non alterare le dinamiche di mercato e di rispettare le regole europee sugli aiuti di Stato. Le pressioni di Bruxelles sul rispetto della concorrenza restano un fattore determinante, così come la necessità di garantire la tutela degli investimenti privati.
Il risultato è che il governo continua a muoversi con cautela, rinviando scelte che avrebbero un impatto diretto sugli equilibri del settore e sull’attuazione del Pnrr, che prevede obiettivi stringenti sul fronte della connettività ultraveloce.
Le sfide industriali e le aree nere
Sul versante industriale, lo stallo si traduce in inefficienze tangibili. Le aree nere, quelle dove due reti in fibra corrono parallele, sono l’esempio più evidente di una competizione che non produce benefici reali ma duplicazioni di investimenti. La promessa di una rete unica era proprio quella di razionalizzare il roll-out, liberando risorse per accelerare la copertura del territorio, soprattutto nelle zone grigie e bianche dove il digital divide è ancora marcato.
Ma senza un modello condiviso di governance e di gestione, la fusione resta sulla carta. Gli operatori privati chiedono certezze, gli investitori internazionali osservano con crescente scetticismo e intanto il mercato procede in ordine sparso, con il rischio di rallentare la corsa del Paese verso gli obiettivi digitali europei.
Un bivio decisivo
Le parole di Scannapieco, nella loro apparente prudenza, contengono un messaggio forte: l’attuale assetto non è sostenibile. È necessaria una svolta che superi logiche di breve periodo e assetti di potere, per abbracciare una visione industriale di lungo respiro.
Sul tavolo ci sono due strade: continuare con una frammentazione che garantisce equilibri temporanei ma non efficienza; oppure compiere il passo verso una vera rete unica nazionale, in grado di coniugare competitività, sostenibilità economica e rispetto delle regole di mercato.
La seconda opzione è quella che può restituire all’Italia credibilità internazionale e assicurare al tessuto produttivo l’infrastruttura necessaria per affrontare le sfide dell’economia digitale. Ma richiede decisioni politiche rapide e una regia industriale chiara.
Un progetto chiave per la politica industriale
La rete unica non è solo un progetto industriale: è una scelta strategica che tocca la politica industriale del Paese, la sua capacità di attrarre investimenti e di rispettare gli impegni europei. Ogni ritardo pesa non solo sul cronoprogramma del Pnrr, ma anche sulla competitività delle imprese e sulla vita quotidiana dei cittadini.
Lo stallo non è più sostenibile. Serve un’assunzione di responsabilità collettiva – del governo, delle istituzioni, degli operatori – per trasformare la rete unica da slogan incompiuto a infrastruttura reale, pilastro di un’Italia digitale, efficiente e inclusiva.