L'INTERVISTA

Ugliarolo (Uilcom): “Lavoro 4.0 banco di prova del nuovo governo”

Parla il segretario generale del sindacato: “Dall’esecutivo mi aspetto che dia una visione di crescita per Paese che raccolga la sfida dell’occupazione ai tempi dell’automazione, mettendo in campo azioni economiche e culturali. Ma anche le le aziende devono fare la loro parte, riscoprendo il valore della responsabilità sociale d’impresa”

Pubblicato il 07 Giu 2018

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La prova del nove del nuovo del nuovo governo? Si valuterà (anche) in un settore strategico per la crescita sostenibile e sostenuta del Paese, ovvero l’Ict. Un comparto protagonista di una delle rivoluzioni tecnologiche più pervasive che l’umanità ricordi, che impatta sull’occupazione, sul modo di concepire il lavoro, sulle relazioni industriali. Ne è convinto Salvo Ugliarolo, di recente riconfermato alla guida della Uilcom.

Conte e i suoi ministri si troveranno sul tavolo dossier “scottanti”: la separazione della rete Tim, la questione call center, le vertenze nell’IT a partire da quella di Italiaonline, un gioiello industriale che però sta per mandare a casa 400 persone. Cosa si aspetta dal nuovo governo?

Una visione di Paese, prima di tutto. Un programma di lungo respiro che ci dica dove vogliono portare l’Italia, con quali strumenti – non solo economici ma anche culturali – realizzare un Paese più forte, più equo ma anche più competitivo. E in questo contesto spiegare come deve evolvere il lavoro, protagonista anch’esso di una trasformazione epocale, trainata dalle tecnologie 4.0.

Ripartire dal lavoro, dunque. Teme anche lei l’effetto disoccupazione tecnologica determinato dall’uso pervasivo delle tecnologie?

Starei attento a parlare di disoccupazione tecnologica. È vero che le stime – perché di questo si tratta, di stime – disegnano un futuro fosco per l’occupazione con cali drastici dei posti di lavoro ma allo stesso tempo ci raccontano di grandi opportunità per i lavoratori, di crescita professionale, di re-skilling e di aumento della creatività. Sarà forse vero che molti lavori scompariranno ma se ne creeranno altrettanti dove la sensibilità e la creatività umana non saranno sostituibili. Ecco, sono convinto che il governo si dovrà occupare soprattutto di questo tema: la grande trasformazione del lavoro nell’era del 4.0.

Un programma di ampio respiro deve però avere basi solide. L’industria italiana dell’Ict è abbastanza forte?

Abbiamo una grande tradizione tecnologica che parte da Olivetti, un asset industriale incredibile come la rete Tim e un’infrastruttura innovativa come quellla di Open Fiber: le basi ci sono, ora vanno valorizzate.

Agcom ha appena dato il primo via libera allo scorporo della rete Tim. Lei che idea si è fatto?

Che avere due reti, quella di Tim e Open Fiber, è anti-economico. La fusione dei due asset invece eviterà diseconomie ed eliminerà il divario digitale ultrabroadband tra le aree metropolitane e quelle rurali e, dunque, accelererà il passaggio alla gigabit society.  La societarizzazione della rete di Tim deve necessariamente prevedere il riassorbimento sotto un’unica entità anche di Open Fiber. In questo quadro diventa cruciale anche il ruolo che potrà svolgere la Cassa Depositi e Prestiti nel garantire all’azienda una governance stabile orientata alla public company.

Tim è alle prese con un corposo piano di ristrutturazione che porterà oltre 4.500 esuberi…

Insieme a Slc e Fistel abbiamo scritto al ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, per chiedere un incontro sull’apertura da parte di Telecom Italia delle procedure per la cigs. Abbiamo ricordato al ministro anche gli obiettivi del contratto di governo, che prevede tra l’altro la riforma della legge Fornero e di conseguenza l’anticipo, in questo caso, del pensionamento per qualche migliaio di lavoratori. Vogliamo incontrarlo per informarlo sulla situazione aziendale e per ascoltare le sue valutazioni sugli eventuali strumenti che possono essere utili alla risoluzione positiva della vertenza. Attendiamo una risposta alla richiesta di incontro perché una vertenza come quella di Tim è una vertenza-Paese e la politica non può restare in silenzio.

L’Ict è un settore cruciale per la crescita, lo ha appena ricordato. Ma un “gioiello” come Italiaonline sta per mandare a casa 400 persone. Cosa sta succedendo?

L’azienda ha avviato le procedure di licenziamento. E’ una società sana che fa profitto e che ha distribuito 80 milioni di dividendi lo scorso anno, eppure licenzia. Al netto delle strategie di impresa, che ovviamente devono rimanere libere, credo che sia da rivalutare anche il concetto di responsabilità sociale. Un’azienda ha anche doveri nei confronti del Paese in cui opera. Ma mi pare che questo concetto sia passato di moda. Come anche per le aziende di call center che, dopo aver fruito di contributi statali, decidono di delocalizzare.

Molte delocalizzazioni però avvengono nell’area Ue. Tutto regolare…

Fino a un certo punto. E’ vero che i Paesi dove vengono trasferite le attività fanno pare della Ue ma spesso – e la vicenda Embraco ce lo ha ampiamente dimostrato – applicano aliquote fiscali alle imprese molto più basse e, come accennato dall’ex ministro Calenda, fanno ricorso a fondi Ue per attirare investimenti. Il risultato? Questi Paesi fanno dumping economico e sociale con impatti terribili sull’occupazione e sulla tenuta economica e sociale degli altri.

E allora?

Allora da un governo, espressione di una maggioranza che ha sempre detto di voler cambiare questa Europa, mi aspetto che vada a Bruxelles a chiedere di verificare le politiche fiscali e di incentivi diretti messi in campo da alcuni Paesi. Così come mi aspetto che dia seguito all’Osservatorio nazionale sui call center, istituito al Mise e che spinga i grandi committenti, pubblici e privati, a non fare ricorso alle gare al massimo ribasso.

Come?

Non solo mettendo paletti legislativi alle gare ma anche obbligando ad applicare la tabella sul costo minimo del lavoro che ha visto luce alla fine dello scorso anno: il costo medio per minuto varia da un minimo di circa 33 centesimi a un massimo di 50. Serve poi creare un contesto favorevole agli investimenti in questo Paese anche intervenendo sul fronte della sburocratizzazione e semplificazione della PA.

I call center soffrono anche di una “crisi di identità”. Nell’era della rivoluzione 4.0 serviranno ancora gli addetti alla customer care o i clienti saranno destinati a parlare con robot? D’altronde le chatbot sono già ampiamente utilizzate…

Questa è una delle grandi sfide del settore: investire in capitale umano ad alto valore tecnologico e di conoscenza. Gli addetti ai call center si stanno sempre più trasformando in consulenti. Investimenti in alta formazione sono la chiave di volta per dare respiro a un settore strozzato dalla crisi. A luglio inizierà il percorso di rinnovo del contratto nazionale delle Tlc e uno dei punti chiave identificati insieme ad Asstel è proprio il re-skilling e la formazione continua. Si tratta di processi che devono essere rivisti in un’ottica di maggior coinvolgimento dei lavoratori, e delle loro rappresentanze, per l’adeguamento delle competenze sia a livello nazionale che aziendale. Ovviamente questo vale anche per altri comparti delle Tlc , non solo per i call center. E in questo contesto diventa cruciale il ruolo che può svolgere il fondo di settore.

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