L'EDITORIALE

Il futuro di Telecom Italia? Dimenticare Telefonica

Troppo divergenti gli interessi con gli spagnoli, a partire dal destino di Tim Brasil. Il vero tema è ripatrimonializzare l’azienda e darle una prospettiva industriale

Pubblicato il 19 Set 2013

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“Telecom è una grande azienda, importante per il Paese”: parole del presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, Gian Maria Gros-Pietro

“Il Governo dovrebbe chiamare gli azionisti e dire: è vero che avete un morto in casa, ma non lo possiamo far morire e accompagnarlo al cimitero”: un po’ macabro, se si vuole, ma efficace la metafora di Vito Gamberale l’amministratore delegato di F2i intervenuto sempre oggi in un’audizione al Senato.

Telecom Italia non è morta, ma certamente non è in buona salute. Anzi, si trova davanti alla svolta più drammatica della sua storia. Schiacciata in particolare da un indebitamento che sfiora i 40 miliardi, una zavorra che il calo dei prezzi e la congiuntura economica non consentono più di ridurre con la regolarità degli anni passati. Ed ora, oltre a ipotecare gli investimenti nelle nuove reti, rischia di avere pesanti ripercussioni nel giudizio delle agenzie di rating.

Ma, nonostante i suoi 8 miliardi di capitalizzazione rispetto ai 90 miliardi di non troppi anni fa (insieme con Tim), Telecom Italia non è una junk company, bensì uno dei maggiori asset industriali del Paese, anche in termini di innovazione tecnologica oltre che di infrastruttura di rete. “Mission critical”, se vogliamo giocare con i termini inglesi.

E come tale dovrebbe essere percepita dall’intero sistema Italia, a partire dalla politica. Il suo destino non è indifferente a quello di una parte significativa dell’ecosistema produttivo e dei servizi italiani. Se non altro per l’enorme indotto che gli gravita attorno.

Nel gioco del consolidamento delle telco europee (per il momento ancora agli albori e per pezzi minori) Telecom Italia non potrà probabilmente più ballare da sola in futuro. Un discorso, però, è un’alleanza industriale che renda tutti più forti; un altro discorso è finire preda sfibrata nelle fauci altrui.

È il rischio, reale, che può tramutarsi in realtà se il controllo passa nelle mani di Telefonica. Che non si è dimostrato il partner industriale promesso. E non soltanto per la sostanziale mancanza delle sinergie sbandierate al momento dell’ingresso nel capitale Telco: alla prova dei fatti si sono dimostrate inconsistenti. E nemmeno tanto cercate.

Pesa molto di più l’evidentissimo conflitto di interessi con Telecom Italia. Un conflitto di interessi che nasce in Brasile, dove Tim Brasil e Telefonica sono in competizione durissima in quello che è il mercato dove T.I. ha la maggior redditività e le migliori possibilità di crescita. Non sono poche, tra l’altro, le aziende italiane che hanno trovato uno sbocco sul mercato brasiliano proprio grazie a Telecom.

Telefonica è molto indebitata: oltre 50 miliardi di euro. Non sarà facile per lei esporsi ulteriormente per pagare il prezzo richiesto dai soci Telco che vogliono uscirne.

Lo status quo, o un mero scioglimento di Telco continuando a rimanere il primo azionista diretto di TI, per Telefonica appare la soluzione migliore: lasciare che Telecom proceda verso il baratro finanziario significa potersi prendere domani a prezzi ancora più svalutati quello che si preferisce non comprare oggi.

Oggi o domani, comunque, le conseguenze per Telecom sarebbero disastrose. A partire dalla cessione di Tim Brasil. Per Telecom Italia vendere il Brasile per fare cassa non ha senso: una boccata d’ossigeno finanziaria di corto respiro, accompagnata da un fortissimo indebolimento delle prospettive industriali e reddituali. Ma per Telefonica, una volta impossessatasi di TI, quella cessione sarebbe una occasione ghiotta: liberarsi dei problemi antitrust esistenti in Brasile e fare abbondante cassa. Praticamente, vorrebbe dire prendersi Telecom Italia senza spendere nulla.

Il vero problema, figlio degenerato (insieme alle due Opa devastanti) di una privatizzazione fatta male, è che l’azionariato di Telecom Italia non è né carne né pesce. Non ha un nucleo di controllo stabile e compatto, né è una public company. È un nucleo di azionisti (pubblici) quello che controlla Orange (13,5% lo Stato francese, 13,5% il Fonds stratégique d’investissement) o Deutsche Telekom (17,4% KFW, la Cassa Depositi e prestiti tedesca; 14,5% direttamente lo Stato tedesco). Public company sono invece Telefonica (il 79,8% di flottante e un 11,14% diviso fra BBVA e Caixa Bank) o BT i cui maggiori azionisti sono fondi di investimento.

Oggi il vero problema di Telecom Italia è che i suoi azionisti maggiori non appaiono in grado di convergere su un progetto industriale su cui scommettere con convinzione. Trovando le risorse finanziarie per portarlo avanti, anche attraverso un aumento di capitale riservato a chi quel progetto condivide e può supportare. Anzi, c’è chi non vede l’ora di scappare e chi aspetta che il cadavere passi nel fiume sotto alla collina.

Il tema più urgente non è lo scorporo della rete (che richiede tempi lunghi ed ha esiti molto incerti) ma ripatrimonializzare Telecom e permetterle di investire nel suo futuro, ad esempio nella banda ultralarga e nei nuovi servizi che soli le impediranno di diventare una dump pipe. E poi, una volta rafforzata nel patrimonio e nel business, entrare nel consolidamento internazionale da posizioni di maggiore forza. Non è un problema di italianità degli azionisti, ma di difesa del patrimonio industriale italiano.

Di questo, secondo noi, dovrebbe occuparsi la politica. Assistere impotenti alla dissoluzione di Telecom Italia non è buona politica

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